2050 - Una breve storia del futuro

A forza di parlare dell’arte di cui fa sfoggio questo o quel curatore nel concepire un’esposizione, si rischia di dimenticare che è la qualità delle opere a fare belle le mostre. Allo stesso tempo, l’insistenza dei media nel mettere l’accento sulla notorietà degli artisti o sul costo dei loro lavori, induce sempre più spettatori a convincersi che questi siano indici certi di un valore estetico corrispondente.

Le vittime inconsapevoli di questo fenomeno allucinatorio, ancora intorpidite dallo one-man show di Okwui Enwezor alla Biennale di Venezia, possono finalmente beneficiare di una cura di disintossicazione, recandosi ai Musei Reali delle Belle Arti di Bruxelles, dove fino al 24 gennaio prossimo viene presentata al pubblico un’interessantissima rassegna di oltre settanta artisti, intitolata 2050 – Une brève histoire de l’avenir da domani a Palazzo Reale a Milano.

Il tema è lo stesso che Enwezor ha trattato (o sfruttato) in All the world’s futures, ma in questo caso i curatori, Pierre-Yves Desaive e Jennifer Beauloye, hanno concentrato i loro sforzi sulla scelta di opere di grande livello e, servendole con umiltà ed intelligenza, le hanno corredate di un apparato teorico che ne sottolinea la ricchezza di significati. Senza piaggeria verso il potere delle gallerie dominanti, senza prestare attenzione alla maggiore o minore pubblicità di cui godono gli autori e, soprattutto, senza utilizzare il tutto come un’opportunità strumentale per promuovere il proprio nome ed il proprio marchio di fabbrica.

Ad onor del vero, bisogna aggiungere che l’ispiratore dell’operazione è Jacques Attali e che il deus ex machina del comitato scientifico è Jean De Loisy, due capitani di lungo corso, nel campo del pensiero economico, l’uno, ed estetico, l’altro. Uomini di altissimo profilo morale, entrambi dotati di grande indipendenza di giudizio, raffinatezza intellettuale e non comune curiosità.

Il risultato è particolarmente felice. La mostra sviluppa, in otto sezioni tematiche, una profonda riflessione per immagini sull’avvenire che potrebbe attenderci, sulle sue cause ed i suoi effetti, partendo dal presupposto che ogni artista degno di questo nome sia anche un acuto pensatore del proprio tempo. E, una tantum, lo spettatore è invitato ad assistere al buon esito del matrimonio tra teoria e pratica. Finalmente, il fervore delle idee coincide con il piacere degli occhi.

Da Louise Bourgeois a Al Farrow, da Andres Serrano a Gonçalo Mabunda, le firme più note sono giustapposte a quelle di artisti che il grande pubblico incontra per la prima volta in quest’occasione. Un insieme sorprendente, ma assolutamente omogeneo, nel quale si succedono, con uguale forza comunicativa, pittura e nuovi media, installazioni e fotografia, poetiche ingenuamente ancestrali e arte concettuale, visioni disperate ed altre piene di utopica speranza.

Numerose sono le opere che meriterebbero descrizioni dettagliate e analisi esaurienti, ma, ovviamente, lo spazio di un articolo permette di citarne solo alcune, quelle che più tenacemente insistono sulla memoria con il perseverare del ricordo.

Innanzitutto, la Mappa di Alighiero Boetti (foto di copertina).

Dal 1972 al 1994, quando l’ottusità della morte ne ha spento l’estro vulcanico, Boetti ha fatto ricamare dalle sue collaboratrici afgane un planisfero ogni anno, nel quale i territori degli stati erano contrassegnati dai colori delle bandiere nazionali, rendendo visibili le incessanti mutazioni della geografia politica rispetto all’eternità di quella fisica. In apparenza, un manufatto artigianale che riproduce, con un tocco di fantasia, il più comune oggetto didattico. In realtà, un’opera che racchiude i temi maggiori di quella poetica in virtù della quale l’artista è oggi considerato una figura di inevitabile riferimento per la creazione contemporanea. La dualità come origine del tutto e le infinite relazioni dialettiche di natura e cultura, immagine e concetto, attualità e storia, occidente e oriente, artista ed artigiano, quindi Alighiero e Boetti.

Poi, l’opera di un altro maestro dell’arte italiana, Salita della memoria di Claudio Parmiggiani (fig. 1, sotto).

Da una tela immacolata, distesa al suolo, sorge una scala di pane che conduce ad un dodecagono nel quale è incorniciato il firmamento. Lavoro silenzioso, denso di simboli, che ci racconta l’arte come tensione verso l’infinito, tra terra e cielo, tra il fare ed il meditare. Un’immagine straordinariamente forte, in cui si materializza con intensa poesia il percorso di elevazione del pensiero. Dalla sua dimensione intima e quotidiana - la memoria del pane - a quella universale e perenne - la visione del cosmo stellato - in un gesto creativo scaturito dalla tela bianca. Un’opera grazie alla quale si capisce agevolmente perché si sia detto di Parmiggiani che è un grande pittore anche se non usa i pennelli.

Nella stessa sala, si trova Kimbembele Lhunga di Bodys Isek Kingelez (fig. 2), artista congolese recentemente scomparso.

Si tratta del modello, realizzato con materiali poveri (carta, cartone, nastro adesivo), di una città utopica. Una Kinshasa onirica, che per oltre quarant’anni Kingelez ha reinventato mille volte. Più colorata, più pulita, più ariosa ed ordinata, più fantasiosa ed accogliente. Nel tentativo lungo una vita di ricostruire un mondo che “ a difetto di essere disponibile, potesse quantomeno diventare abitabile”, per dirlo con le parole di Merleau-Ponty. Un’opera, dall’aspetto giocoso e infantile, dietro la quale traspare la storia tragica e dolorosa delle megalopoli africane. Un sogno di progresso e felicità, la cui fragilissima semplicità ricorda l’atmosfera incantata di Miracolo a Milano.

Proseguendo nel percorso, si incontra Matrix of Amnesia (Fatman, fig. 3), figura in cera e resine di John Isaacs, scultore inglese della generazione degli Young British Artists.

Le carni di un enorme obeso si spandono al suolo, come se il suo corpo si stesse liquefacendo in un’orribile pozza di lardo. Fiumi di alcol, valanghe di mangime a buon mercato, hanno schiacciato a terra quell’omone solo e senza speranza. Le sue fattezze caricaturali rinviano immediatamente il pensiero a quelle degli ubriachi dipinti da Hogarth nell’ indimenticabile Gin Lane. Immagine grottesca di una vita senza futuro, che trova nell’amnesia l’unica possibilità di durare. E’ un’opera punk, potente e urticante, capace di fare del brutto, del bizzarro e del difforme oggetti di alta dignità estetica grazie all’intensità del sentimento da cui è pervasa.

In fine, The Babble Tower, di Jake e Dinos Chapman (fig. 4), fratelli terribili ed eccellenti dell’arte britannica.

Lo sguardo dello spettatore è chiamato a perlustrare un inestricabile coacervo di corpi in miniatura, nel quale schiavi ed aguzzini si confondono sui ponteggi di sostegno ad un’improbabile costruzione. Si tratta di una Torre di Babele abitata, non più da zelanti muratori come nel dipinto di Bruegel, ma da una processione infernale di soldatini di plastica, tanto ridicoli quanto inquietanti, che assumono di volta in volta le sembianze di gerarchi delle SS, di vittime dell’olocausto o di pupazzi Ronald McDonald. Una specie di grosso giocattolo, parodistico e crudele, che riassume nelle contorsioni di quelle anime perdute, tutti gli incubi della nostra epoca. Con molto acume ed altrettanto humor nero, un occhio alla grande pittura e l’altro agli horror movies di serie B.

Nell’insieme di oltre settanta opere, ben più vasto ed articolato di quanto si possa desumere da queste note, la mostra offre un ricchissimo bagaglio di spunti per la riflessione sul nostro tempo ed il modo in cui il futuro stia nascendo oggi. Veramente bella, merita una visita attenta e prolungata per almeno un paio d’ore. Si consiglia di ripeterla non meno di tre volte.

 

21-09-2015 | 02:39