Alla morte bisogna arrivarci vivi

Se il precedente libro di Aldo Busi Vacche amiche (la recensione è su questo sito) aveva il sottotitolo un’autobiografia non autorizzata quest’ultimo L’altra mammella delle vacche amiche, sempre per Marsilio, potrebbe, ancora di più del precedente, allargare il sottotitolo a “un’autobiografia di una nazione non autorizzata”, nel senso che ancora di più non è autobiografia si sé medesimo, figuriamoci – per Busi più che per qualsiasi altro vale il Je est un autre di Rimbaud – ma lo è di un intero Paese, l’Italia, sotto ogni punto di vista: sociale, antropologico, esistenziale, morale, etico, intellettuale e via dicendo. E lo sarebbe anche nell’altro senso che la frase evoca, ossia un’autobiografia di una nazione che non è autorizzata a esserlo, quanto non lo è uno Stato come il nostro che viene meno a tutti quei principi che sono le fondamenta dello Stato (che si vuole professare) laico, da Montaigne a Voltaire.

Dunque come nel precedente, che era – ora lo si capisce – pre-testo al testo, c’è tutta una vita, quella del Busi scrittore che mai sarà scindibile da quella dell’uomo, che è racconto razionale delle cose, dall’infanzia alla maturità, senza mai un briciolo di nostalgia o malinconia, senza mai quella tristezza insita nelle cose andate, senza sensi di colpa, ma gioioso e forte, portatore integerrimo di una rettitudine etica prima che morale che viene da lontano, fino in fondo ai secoli, laggiù dai presocratici. E anche un’invettiva contro il mondo, gli amici e i nemici, i politici e i giornalisti, i brutti e i belli, perché tutti stanno solo nell’immanenza, mai nella trascendenza della parola scritta. Dunque traditori che appartengono al “tradito”, dove le parole non valgono più nulla (figuriamoci gli atti).

C’è il viaggio a Davos all’orizzonte, sulla montagna finalmente magica, ci sono le donne della vita, le vacche amiche, gli interlocutori fisiologici, le donne dei carteggi – una su tutte Miriam – ma soprattutto c’è la scrittura, enorme, alta, semanticamente teoretica, nel senso che crea la lingua nel suo divenire. Ed è proprio in questo carteggio con Miriam che emerge tutta l’analisi antropologica di un mondo, la sua vacuità, le sue meschinità, i suoi pregiudizi e i suoi dispotismi. Un po’ come fece Montesquieu con le Lettere persiane, però il grande francese si mimetizzò dietro la corrispondenza di due persiani immaginari, un espediente letterario, mentre Busi firma e controfirma in calce con “Aldo Busi”. Tradotto: tutte le responsabilità hanno un mittente.

Quando in Italia esce un suo nuovo libro la cosa dovrebbe essere salutata come un evento – proprio oggi in cui tutto è “evento” e dunque niente lo è – tipo quando veniva portata una Madonna di Duccio dalla sua bottega fino alla chiesa e tutti i cittadini scendevano in piazza per vederla.

Sarà per la mai doma leggerezza dell’essere italiano, sarà per la tardiva alfabetizzazione – arrivata solo, e non compiuta, con Mike Bongiorno, altro che i buoni propositi del De vulgari eloquentia – sarà per quel che sarà, ma di fatto non è così. D’altronde è da tempo che i lettori preferiscono essere riportati sul sofà di casa dallo scrivente – non si può chiamare scrittore chi fa questo – ricondotti alle proprie piccinerie quotidiane, una doccia con lei, un gatto, le tirannie del capufficio, e i bambini che piangono, e il sogno di un chiringuito ai Caraibi, e l’amante, e pedalare che la vita corre, piuttosto che nella selva oscura, dove fare i conti con parole come etica e morale, con condivisioni di passioni prima civili che fisiologiche, con i dubbio e il baratro che c’è dietro a certe domande.

Forse perché viviamo nella società dell’immagine, anche se, come scrive Busi, “una civiltà costruita sull’immagine che soppianta la parola scritta o è una civiltà interrotta o una estinta, staremo a vedere”, forse perché il mito della tecnica non è ancora diventato, come dovrebbe, mezzo, e dunque tutti a sditalinare il nulla che hanno in mano pensando sia esso stesso, l’apparecchio touch-screen, il fine ultimo delle cose. Sta di fatto che la frase “arrivarci alla morte da vivi, questa è la cosa” è sintesi e incipit insieme di un romanzo che parla giocoforza degli italiani “tutti così indietro e perciò incattiviti dalla minima critica, ignoranti e suscettibili, grezzi, loschi, incapaci di lavorare, svogliati in quello che fanno, menefreghisti, insensibili e perciò tanto più permalosi e facili a sentirsi offesi”, popolo ancora – o ormai – troppo lontano dalla letteratura, dalla visione illuminista del mondo, da quell’emancipazione dal “clericale” che qui diventa anticlericalismo puro, solare, felice, quasi buono. Si legga la plausibile telefonata di papa Francesco a Busi per capire quanto la liberazione dai dogmi sia sana, propositiva, allegra e piena di vita – qualcosa lascia pensare che piacerebbe anche a Bergoglio – e la si confronti con le telefonate radiofoniche del finto Bergoglio a chi si professa ateo da tempo, subito pronto a rompersi la voce di commozione ad ogni parola, anche quelle non ex cathedra.

Brevi racconti, come andare allo stadio a vedere la finale mondiale del Maracanà per capire il mondo, un quarto del quale attaccato a un evento così – e nessuno alla letteratura cosà – si intrecciano con il lungo racconto di tre donne, quelle che non solo non l’hanno preso, ma forse neanche visto tutto fino in fondo; donne che lo hanno sfiorato, comunque sempre più degli uomini che, a quanto pare, sono stati solo fisiologici e, a differenza delle prime, mai degni di amore.

Si diceva della solitudine di Aldo Busi, della sensazione di quanto sia davvero felice e lontana da quel dare aria alla bocca che dice “sì, ma in fondo nessuno e felice da solo”: no, qui è il contrario: “non so nemmeno cosa sia la solitudine esistenziale, ho talmente tante mercuriali presenze nel mio cervello che posso guidare da qui a Davos senza nemmeno ricordarmi di accendere la radio. Mi disturberebbe la compagnia che mi faccio”.

Lo sguardo sulle cose, sempre e solo da scrittore, mai da parte in causa ma neanche da troppo in alto, che poi si rischia di perdere il senso del tutto. Dunque mai come Fabrizio, che nella Certosa di Stendhal è quasi convinto di aver vinto a Waterloo – parte in causa, visione monca – e mai come un Victor Hugo, che sembra sempre vedere le cose dall’altezza di Dio – se Napoleone avesse avuto il suo racconto di Waterloo non avrebbe certo perso la battaglia – ma sempre alla Busi, sezionando la visione in modo non ortodosso, potremmo dire obliquo, come si taglia una fetta di salame.

E stare nel mondo consapevoli che anche i parenti erano e non sono più sangue del tuo sangue, “si sta insieme come mele nella stessa cassetta una volta staccatesi dall’albero ma linfa comune non ne circola più”, dunque abbandonando tutto con la consapevolezza di non essere mai partiti, ma sempre in moto. Come per il motore immobile di Aristotele, da cui tutto ebbe inizio, in cui la fonte del moto era, appunto, priva di moto. E come per il viaggio a Davos, dove la montagna è ora sì magica, ma forse disincantata nel vedere il mondo che le corre lì sotto.

 

Aldo Busi, L’altra mammella delle vacche amiche (Marsilio), pagine 468, 18 euro.

 

 

27-12-2015 | 16:40