Desideriamo davvero la libertà?

Poco tempo fa, su un canale di cinema, è capitato di rivedere dopo tanto tempo uno dei film migliori del grande e mai abbastanza compianto Marco Ferreri, Dillinger è morto. Lavoro particolarissimo, innovativo per il cinema italiano fine anni ‘60,  girato nella casa di Mario Schifano (di cui si vedono diversi quadri alle pareti) a Trastevere, che è il set per quasi tutto il film, dopo il breve prologo e l'ancor più breve epilogo.

Glauco, ingegnere di mezza età, interpretato da Michel Piccoli, è in fabbrica, dove assiste al collaudo di un prototipo di maschera antigas con un collega. Questi lo chiama in disparte a fine turno e gli legge un proprio scritto sull’alienazione dell’uomo nella società contemporanea (che se non era tratto da Herbert Marcuse, senza dubbio vi era fortemente ispirato). Glauco lo ascolta molto distrattamente, dopodiché rientra a casa. L'ora è tarda e la moglie già a letto; si danno la buonanotte, lui le dice di non aver sonno e voler restare alzato.

Decide di cucinarsi un arrosto, meticolosamente e in tutta calma, quando, rovistando in un mobile della cucina, trova una vecchia pistola avvolta in un foglio del “Messaggero” (Dillinger è morto viene dall’articolo di testa che riporta l’uccisione del gangster della Chicago anni ’30).

Decide di ripristinarne l’uso: la smonta, la olia, la pulisce e la dipinge di rosso e pois bianchi. Si istaura una sorta di affetto simbiotico, diventa un giocattolo inseparabile, se la passa da una mano all’altra, la scruta, guarda attraverso la canna, mima degli spari contro le immagini dei filmini che proietta (qui le sonate per flauto di Mozart e le musica originale di Teo Usuelli in sottofondo sono assolutamente perfette), mima più volte il suicidio davanti allo specchio, puntandosela alla tempia, alla bocca.

Il film indugia molto piacevolmente sulle varie faccende di questa quieta follia di uomo medio in casa da solo. E può ricordare Antonioni per la dilatazione dei tempi, si sofferma sulle azioni ripetitive e i dialoghi ridotti al lumicino, ma qui, a differenza di Antonioni, il tempo non è riempito dalla noia, bensì dal gioco. Gioco che intrattiene anche con la domestica (una splendida Annie Girardot) svegliata mettendole in mano delle banconote, complice un barattolo di miele.

La stessa espressione di Glauco è fissa per tutto il film in un’enigmatica, sorridente impassibilità, che mantiene anche quando va, sempre giocando a sparare, in camera da letto e spara – questa volta davvero –  alla moglie addormentata.

Poco dopo è mattina, il sole sembra sorgere sulla nuova vita di quest’uomo, ora solo e libero dai vincoli sociali per eccellenza, lavoro e matrimonio. Va verso il mare, e in piedi su uno scoglio, indossa un grosso collier d’oro dalla fattura arcaica (una specie di simbolo iniziatico della libertà che lo aspetta) prima di tuffarsi in acqua, ritornando nell’elemento primordiale da cui rinascere. 

Raggiunge un galeone poco distante da cui l’equipaggio sta gettando a mare la salma del cuoco di bordo, i marinai lo fanno salire e lui si offre di prenderne il posto, a paga sindacale. Appare la padrona del vascello, una giovane Carole André in bikini, che lo assume, gli toglie la collana e se l’indossa. Si salpa per Thaiti, come dirà il capitano a chiusura del film, prima che l'immagine delle nave a vele spiegate salpi verso un orizzonte tutto giallo e rosso e un sole degno di un fondale di teatro, che con la sola parola "Thaiti", una oltremodo scontata destinazione da romanzo d'avventura, ancor meno verosimile se pensiamo che siamo poco distanti da Roma, confezionano il finale onirico ma altrettanto oleografico. 

A questo punto, le interpretazioni che risulteranno più fondate saranno volte a leggere il film come un estremo, orribile rigetto di una vita vuota, monotona, fondata su di una routine asfissiante e tiranna che ha spinto il protagonista ad una ripulsa talmente forte da ricorrere all’omicidio per porvi fine. Ed essendo un film del 1969, le interpretazioni politiche in chiave anti-borghese si sono succedute numerose: si è parlato di alienazione del mondo borghese (come presagito dallo scritto del collega ad inizio film), della perdita di senso in un mondo dominato dalla mercificazione (i soldi in mano alla cameriera), di declino del ruolo maschile nella società post-capitalista (la morte di Dillinger che riporta il giornale è quasi un presagio della fine di una virilità forte e ribelle, e a quei tempi l’associazione era ancora attuale) e pensando al cinema di Ferreri, ci si accorge che tutte le figure maschili che lo popolano sono irrimediabilmente in preda ad una totale crisi di genere, tanto che lo si potrebbe definire probabilmente il regista più anti-virile di sempre.

Tutte interpretazioni plausibili, il film ha indubbiamente un che di Godard, di critica sociale militante. Ma il discorso di Ferreri si svincola dai temi che sembra tanto intenzionato a sottolineare, va oltre, e la sua originalità sta anche nel suggerire, libero dai pur forti riferimenti al proprio tempo, un problema più vasto: quello della libertà.

Perché non è chiaro se e quanto Glauco ambisca alla libertà che si trova a un tratto tra le mani,  poco dopo aver annullato il proprio mondo con un gesto orrendo e assurdo. Perché voler fare il cuoco su un improbabile vascello a vela, riconsegnandosi a una donna sconosciuta? Il film sembra porci il problema della libertà in termini di desiderio con una domanda: desideriamo davvero la libertà?

Domanda non banale, che si era posto pure  Étienne de La Boétie, nel Discours de la servitude volontaire, scritto poco più che ventenne attorno al 1550, in cui si chiedeva quali fossero le cause delle tirannidi che affliggevano la maggioranza degli uomini nel corso della Storia. E la conclusione (che non rinuncia ad una soluzione possibile), è però delle più radicalmente pessimiste: l’uomo non desidera affatto la libertà e il suo rifiuto è il fondamento delle tirannidi. E il desiderio, o meglio il brivido, di libertà provato da Glauco ha una durata effimera, evapora nel breve lasso di tempo che serve a ritrovare un vincolo nuovo, apparentemente opposto all’esistenza che ha appena abbandonato ma sostanzialmente identico. L’idea di una libertà assoluta, illimitata come il mare in cui si tuffa, può avergli paventato la sensazione di un baratro senza fondo. La stessa inquietudine che possono suscitare solitamente le idee non abbracciabili dal pensiero, come quella di infinito o di eternità, per cui si finisce col preferirle una serie di rassicuranti limiti entro i quali rifugiarsi. O più semplicemente la libertà non piace, comporta responsabilità, inquietudine, decisioni troppo probanti per potersela permettere. Forse non è per tutti.

Probabilmente la soluzione più azzeccata all’improba domanda la si trova nell’Etica di Baruch Spinoza: la libertà consiste nell’ obbedire alla propria natura senza condizionamenti esterni, ma la natura è il limite più imprescindibile e l’illusione della libertà nasce dal non conoscere le cause delle proprie scelte. Dovremmo forse mettere da parte visioni idealistiche e accontentarci dell’idea di uomo che propone qui Ferreri, capace di ambire ad una libertà limitata, gestibile. Un uomo che necessiti più di quanto s’illuda dei limiti impostigli dai propri simili, pur mostrandosi desideroso di volerli infrangere. E, forse, l’oggetto dei desideri più comune è un villaggio vacanze ben attrezzato, non un continente immenso e ignoto alle carte geografiche. 

 

 

04-02-2015 | 18:14