Elogio del tabarro

Scrivere oggi del tabarro, di quel mantello tipico della tradizione popolare, rimanda immediatamente a Giovannino Guareschi e a Guido Piovene, alle nebbiose atmosfere padane dai due magistralmente descritte, alle passeggiate in bicicletta o a piedi lungo gli argini del fiume; svaghi metafisici, spesso solitari, fra terra e acqua, dove l’umidità brumosa da elemento etereo si fa essenza predominate ed atmosfera avvolgente. Mentre i campi riposano e il Mondo piccolo attende la stagione oscura, ombre furtive svaniscono nell’indistinto: fantasmi intabarrati dalle lente movenze gotiche, quasi apparizioni nella caligine. Come ben trattato nei film di Pupi Avati trattasi di un’inquietudine stranamente rassicurante in quanto atavica, di un segno indecifrabile e misterioso sospeso nel silenzio campestre.

La piatta prospettiva padana, d’estate ribassato epicentro afoso dal quale scorgere come in cartolina Appennini e Alpi, si trasfigura d’inverno in reame del fantasmagorico, ovattato interspazio dove pare impossibile scorgere alcunché oltre a qualche metro dal naso: quella cos’è, una pianta? Una Giraffa? Una strega sfuggita dai pioppeti della golena? Tutte suggestioni fiabesche, in fondo pagane, tipiche di quella che venne definita al capezzale civiltà contadina. Tuttepeculiarità poi “musealizzate” per reazione dinnanzi all’avanzata luciferina della modernità e al diradamento progressivo delle foschie; ed ecco quindi che dal “Ah! Non ci sono più le nebbie di una volta” al “Si stava meglio quando si stava peggio” è un attimo da romanzare all’infinito. Eppure il pesante panno invernale – a differenza del pastrano, un tempo indossato prevalentemente dai poveri – ha nobili origini. Senza voler scomodare l’ascendenza diretta con le toghe di Roma antica, ci basterà ripercorrere la gloriosa storia della Serenissima Repubblica per incrociare il tabarro, tra calli, campielli e ponti, un po’ ovunque, trasversalmente ai ceti sociali e alle mode cangianti veneziane. A riprova di ciò basterà rammentare l’iconografico abbigliamento del più grande seduttore, Giacomo Casanova.

Parimenti ad altri elementi d’uso quotidiano – pensiamo alle case contadine, dove dagli anni ‘60 del secolo scorso sorse l’urgenza di coprire con un telo il camino, giudicato vergognoso elemento di conclamata povertà rurale (quanti abbandonarono meravigliose case in pietra per rintanarsi in appartamenti impersonali?), a maggior ragione se paragonato all’avvento del radiatore elettrico – pure per il tabarro giunsero gli anni dell’abiura. Già messo al bando in epoca di guerra per il sospetto di cosa potesse celare sotto le pieghe, il mantello da uomo scomparve dapprima dalle città, poi gradualmente anche dai piccoli centri di campagna, lasciando così campo libero all’estetica seriale, caratteristica delle masse fintamente emancipate.

Per chi, come lo scrivente quarantenne, è nato e cresciuto in un piccolo centro della bassa lombarda, non risulterà difficile rammentare dell’ultimo vecchio contadino in tabarro, di quello stoico signore avvolto nel pesante panno, quotidianamente diretto alla briscola in osteria. Un po’ come nel passaggio dal cavallo all’autovettura, c’è molto romanticismo in questa inesorabile estinzione. Giunsero inevitabilmente nuove mode, soprabiti e cappotti borghesi prima, giacconi sintetici da sciismo totalitario poi, a giustificare una conformistica ricchezza da esibire in società. Sulle sorti del tabarro, vecchio cencio da nascondere in soffitta, cadde fatalmente un lungo silenzio. Come spesso succede però – dall’eterno riposo all’eterno ritorno muta solo qualche lettera – l’amnesia impreziosisce il ricordo e l’abbandono generalizzato può finire con l’aprirsi ad un imprevedibile recupero. Comodo, senza l’impiccio di bottoni o cerniere, caldo e naturalmente elegante, il tabarro è tornato soprattutto in città, dove un certo snobismo da anticonformisti ne esalta l’utilizzo, quasi come se si trattasse di una scelta di vita. Certo, è ancora un codice estetico per pochi congiurati, forse solo un vezzo per eccentrici, ma in epoca di sobrio pragmatismo, qualcuno potrebbe negarne praticità e robustezza? D’altronde, rammentando la nota sentenza di Coco Chanel: La moda è fatta per andare fuori moda.

 

 

19-11-2015 | 22:06