Estetica della sconfitta perfetta

È venuta in mente a tutti la partita del 1950 con l’Uruguay, che è stata così atroce come sconfitta e così assurda, che gli stessi giocatori della squadra vincitrice dissero ai brasiliani “Ci dispiace di aver arrecato un simile dolore”. Cose da mondiali.

Il Brasile perde, ma di una perdita incredibile. Arrivati al 5-0 poteva fare solo una cosa: vincere. Quanto sarebbe stata incredibile quella vittoria, quasi miracolosa. Possiamo ammirare la Germania per come ha vinto servendosi sempre del medesimo rimpallo a tre sotto la porta contro una squadra allo sbando, sotto fortissima pressione psicologica (evidentemente non si sono nemmeno affidati alla professionista giusta), inesistente sul piano di gioco. Difficilmente, però, qualcuno può aver vissuto il brivido dell’imprevisto e del grande spettacolo. Non c’è stato. Non s’è visto fioretto, non s’è vista grazia: è stato un pestaggio contro un gruppo di catatonici.

Al contrario, arrivati al 5-0, il Brasile avrebbe potuto regalare a tutto il mondo uno spettacolo irripetibile, ne aveva perfino il tempo. Come avremmo potuto descrivere lo spettacolo di un 7-5 per i padroni di casa? Non avremmo potuto, sarebbe stato qualcosa da perdere la testa, un volo d’angelo che risale dalle profondità dello Stige. Il popolo che oggi protesta fuori dallo stadio, dopo essere stato massacrato in mezz’ora, recupera d’un tratto il controllo e scarica sugli avversari un caricatore di goal così potente da lasciarli in stato confusionale a centro campo.

Un simile spettacolo lo abbiamo sognato, visto quasi come se stesse accadendo, rapiti dalla sua inqualificabilità. Poi i tedeschi hanno segnato il sesto goal, poi il settimo. Quello segnato dal Brasile aveva il sapore di un’elemosina. Ma andrebbe amata lo stesso, questa squadra, per aver creato lo scenario di una possibile rimonta (sei pur sempre il Brasile e hai pur sempre un’ora e passa), di una possibile catarsi mondiale, e invece è finita dove finiscono le squadre deboli: sul muro del rimpianto.

Ma una verità universale possiamo ugualmente ricavarla: una sconfitta delirante è preferibile a una sconfitta mediocre, che è come dire non esistono piccole parti ma solo piccoli attori. L’Italia deve ringraziare San Francesco per non essere arrivata così in alto, rimasta avvolta com’è nello squallore e nel rimediato. Se Prandelli ancora può andare in giro a dire che i calciatori non gli avevano detto di non sentirsela di ricoprire dei ruoli così importanti, che il caldo eccetera eccetera et similia, è solo perché l’Italia ha perduto con un goalletto da quattro soldi prima che potesse davvero interessare a qualcuno.

Prandelli, se avesse perso 7-1 con chicchessia, oggi sarebbe costretto a girare con la scorta. La squadra, probabilmente, nemmeno con la scorta potrebbe girare e il simpatico Balotelli o l’ameno Chiellini oggi dovrebbero ragionare seriamente sulla cittadinanza iraniana. Fortunata Italia, che ha perso poco, ma senza che alcuno ricordi.

Anche in questo la sconfitta del Brasile può farci sognare un ulteriore paradosso: la catarsi a mezzo fallimento. Finalmente anche questo tabù, quello della sconfitta, è andato a farsi benedire. Perdere non è calcisticamente (parliamo dell’ontologia della discordia, qui) riprovevole, perché nessuno a calcio è il primo, ma si è in costante avvicendamento. Perdere non è perdere totalmente e se si riesce a perdere clamorosamente può anche trasformarsi in vittoria, cioè quando il tuo avversario ti dice che è dispiaciuto che tu abbia perso in quel modo. Il suo dispiacere è più che una medaglia.

Questo dovrebbe farci meditare: nessuno si è dispiaciuto per l’Italia, i tifosi italiani l’hanno vissuta come una necessaria per quanto dolorosa eutanasia, null’altro.

Il Brasile, invece, svetta accanto ai grandi, ma con una doppia grandezza: poterci essere benché perdenti.

 

 

09-07-2014 | 18:39