Francisco Goya e la cronaca estiva

Di fianco a me, nella sala delle Pitture Nere di Goya, ci sono due signore italiane dall’aspetto molto curato. Hanno un’età difficilmente definibile, tra i quaranta e gli ottant’anni, con ogni probabilità sono vedove di mariti ancora in vita. Uomini troppo occupati per accompagnarle nella visita al Prado. Presi come sono da impegni urgenti tra Rimini e Cesenatico, meeting aziendali di capitale importanza - hanno detto -  per chiudere in bellezza un’annata di duro lavoro. Le signore si lamentano a voce  alta del caldo che fa a Madrid e di quanto poco lavorino gli Spagnoli, in bilico tra la rassegnazione ed il livore. Mentre Saturno divora i figli e sembra sgranare gli occhi di fronte alla scipitezza acida dei loro discorsi.

Disturbano senza scrupoli, come senza scrupoli ostentano le stigmate di una ricchezza invadente, e mi chiedo perché la gente che detesta il caldo non se ne vada tutta a passare le vacanze alle Isole Svalbard. Magari facendosi accompagnare da quelli che non amano la pasticceria o sono ghiotti di divulgazione scientifica (categorie consimili nella mia personale scala di valori). Il che forse non risolverebbe i loro problemi, ma mi eviterebbe di trovarli sulla mia strada. Non riesco ad astenermi nemmeno dal rivolgere un pensiero anche ai mariti. Li immagino con un bel vestito di  tessuto anti-piega, giacca corta, camicia ben aperta sul petto e leggermente tesa all’ombelico, pantalone affusolato con il risvolto sopra la caviglia che sfocia in un mocassino morbido dai colori vistosi. Orologio importante, auto veloce e qualche idea chiara, almeno sulla democrazia, l’immigrazione e la nazionale di calcio, sicuramente destinata a vincere i mondiali se solo avesse partecipato.

A Madrid in effetti fa molto caldo, anche se un paio di gradi in meno che a Saragozza, dove la Vergine del Pilar sta al fresco nella penombra di una cappella. È  un po’ rigida e ancora molto lontana dalla grande libertà degli affreschi dipinti da Goya a San Antonio de la Florida circa vent’anni dopo. Sulla Plaza del Pilar, proprio sotto la statua dedicata al pittore, incrocio un gruppo di giovani italiani. Hanno più o meno la stessa età che aveva lui quando gli fu commissionata la Vergine, ma molta meno timidezza nell’espressione. Chiuso il vigoroso coro di Fratelli d’Italia, si lanciano in un altrettanto rumoroso “Dottore, dottore del buco del cul. Vaffancul, vaffancul”. Mi avvicino ad uno di loro e chiedo cortesemente in cosa si sia laureato lo studente che se ne andrà affanculo. “In economia e commercio – mi risponde – e se non sei italiano vaffanculo anche tu”. Non sto a spiegargli che con lui ho simulato l’accento francese proprio perché di lui mi stavo vergognando tra me e me ( e forse anche perché mi sarebbe piaciuto tanto vincere i mondiali). Ma prendo atto del fatto che tra Italiani ci si manda affanculo almeno quanto vi si mandino gli stranieri. E rifletto sull’opportunità di studiare economia e commercio.

A Granada, che è un paradiso in terra, il termometro è costantemente sopra i trentacinque gradi. Però l’aria è di velluto, i giardini profumano di cento specie di fiori e l’acqua scorre incessantemente in una miriade di fontane e fontanelle. E poi c’è l’Alhambra dalla bellezza travolgente. Uscito dal Monastero di San Girolamo,  al tavolo di un caffè in Calle Goya, ho la pessima idea di sfogliare l’edizione on-line del Corriere della Sera. I primi titoli sono dedicati al pestaggio di un ragazzo senegalese in Sicilia, all’agressione subita a Moncalieri da un’atleta italiana di origini nigeriane ed alle dichiarazioni del ministro degli interni, che risponde ai vaffanculo sguaiati di cantanti e soubrettes citando Mussolini in modo piuttosto triviale.

Anche nel governo del re inetto, Carlo IV, c’era un ministro forte, quel Manuel  Godoy che si permetteva di esporre la Maja Desnuda appesa alla parete del suo studio, senza alcun timore per le ritorsioni del Sant’Uffizio. Come a dire “Me ne frego”. Un uomo brutale del quale Goya diffidava al punto da abbandonare Madrid per recarsi in Andalusia presso l’amico Sebastian Martinez, a Cadice. È lì che nacquero i disegni preparatori dei Capricci, incisioni impietose sui vizi del popolino e gli abusi dei potenti, immagini di incubi e paure.

“Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”. Chissà se è questo il ritornello che frullava nella testa di quei quattro coraggiosi patrioti che hanno tirato per le orecchie e preso a pugni e calci un ragazzo senegalese a Partinico? Di sicuro, a forza di vaffanculo e menefrego, l’Italia rischia di non destarsi per nulla o, peggio, di sprofondare in un brutto sogno. Certo, per me che sto in vacanza a seguire le tracce di Goya lungo un fantasmagorico periplo spagnolo, è facile far cadere dall’alto un po’ d’ironia politicamente corretta. Molto più difficile sarebbe se stessi disperatamente cercando un impiego vicino a casa, magari a Enna. Però, è anche vero che non tutti i disoccupati marciarono su Roma nell’ottobre del ’22. Ed è altrettanto vero che non tutti i benestanti coll’orologio d’oro e la moglie negletta furono mandanti e complici di quelli che scelsero di farlo.

Ma, questi sono solo i discorsi oziosi di un italiano abbastanza provinciale da provare vergogna per le storture del proprio grande Paese. Moralismo last minute di un turista sufficientemente sfaccendato da amare perdutamente il caldo torrido che rallenta ogni attività. Quindi, basta politica e niente morale, domani a Cadice vado a vedere le lunette di Goya nell’oratorio della Santa Cueva. E, con un po’di fortuna, sarò l’unico italiano. 

 

 

02-08-2018 | 10:11