I 40 anni della casa maledetta

Uscito al cinematografo nel lontano 1976, il film La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati è considerato oggi un capolavoro dell’horror all’italiana - o forse sarebbe meglio affermare, circoscrivendo, “gotico alla padana” -, un caso curioso anche per quanto riguarda l’eterogenea e stravagante produzione del regista bolognese. Beninteso, a quarant’anni esatti da quell’esordio considerato minore, non lo si può certo considerare ora trastullo da blockbuster, tuttavia, visto l’interesse crescente e trasversale, è spendibile con qualche valido motivo l’oziosa etichetta “film di culto”. Un culto sotterraneo e carbonaro, per anni tenuto in piedi grazie alle regolari riproposizioni notturne di Rete 4, al fare dell’alba, e cresciuto rapidamente attraverso gli strumenti interattivi di condivisione. Si discute de La casa dalle finestre che ridono, oggi, come trattando di cose perdute, di artigianato per seppiata celluloide, riesumato con intenti reazionari rispetto alla prosopopea splatter americana ed ancor più riguardo agli artifizi gigantisti con effetti speciali.

La pellicola, sceneggiata in collaborazione con Maurizio Costanzo, porta a compimento suggestioni grottesche presenti anche in altri episodi diretti da Avati – pensiamo a Balsamus, l’uomo di Satana, Tutti defunti… tranne i morti, Le strelle nel fosso e Zelder – trovando nel thriller campestre una formula appropriata per tratteggiare l’estetica indolente e paciosa della “bassa”, le allegoriche superstizioni dell’umida depressione ferrarese. Una meta-area in realtà più vasta, comprendente l’oltre Po mantovano, il rodigino, l’alto ravennate, parte delle province di Modena e Bologna, quale eccellente contraltare periferico e diurno rispetto alle ambientazioni più urbane e notturne, privilegiate dal maestro di genere Dario Argento. Film microcosmico quindi, girato con pochi mezzi, autarchico nei riferimenti come nella realizzazione, riporta ad uno strano periodo per la settima arte, ad anni in cui il neorealismo era già un ricordo metabolizzato, mentre il lifting digitale non era nemmeno un’idea, tanto da costringere gli addetti ai lavori a trafficare con ingegnosi espedienti per rendere l’idea di un film moderno. Quale questo non fu.

La torbida vicenda si basa infatti sull’arrivo in paese di un compassato restauratore, interpretato dall’algido Lino Capolicchio, incaricato di recuperare un affresco censurato situato nella chiesetta del posto, allo scopo di ravvivare grazie a quella scoperta l’inesistente afflusso di turisti. Attorno al misterioso dipinto, attribuito al pittore maledetto (ritrattista di agonie) Buono Legnani, muoveranno intricate vicende, in un crescendo d’impicci arrecati al protagonista dall’ipocrita popolazione locale – il comandante dei carabinieri, l’avvocato, il farmacista, la maestra, il sagrestano, l’imprenditore filantropo e soprattutto il ruffiano prete, vero soggetto d’interesse della storia - intenzionata a non svelare i torbidi segreti che l’opera pittorica nasconde. Oltre alla trama indubbiamente coinvolgente, sospesa tra sacro e profano, e ad un finale inquietante, il lungometraggio trova notevole forza espressiva nella ruralità sgarrupata del paesaggio fluviale, nella decadenza consortile così prossima al mare. Quella è ancora oggi terra zuppa ed intrisa di vuoti, caratterizzata da una malinconia inspiegabile, come se l’assolato cazzeggio da spiaggia, distante pochi chilometri, fosse in realtà inconciliabile con ciò che l’anticipa.

Strappata alle paludi, regno di zanzare, anguille e leggende, la zona che ospita la fatiscente casa dalle finestre che ridono, diventa sordido recesso per elucubrazioni etnografiche, per fosche dissolvenze paesaggistiche e per ancestrali ritualità contadine, quali corrispettivi autoctoni del brumoso immaginario gotico anglosassone. Intendiamo ovviamente menzionare la meravigliosa Comacchio, ben visibile nel film con i suoi ponti ed i canali adiacenti alle case, e ancor più il nulla metafisico che aleggia attorno. Pupi Avati - qui confortato dalla recitazione impeccabile di uno dei suoi attori-feticcio, ovvero Gianni Cavina nella parte dell’ubriacone di paese – riesce nell’impresa di creare con poco un immaginario estetico perfetto, senza l’impiccio di dover ricorrere alle esasperazioni emorragiche, tipiche del genere horror. Lo fa riesumando abitudini conviviali, codici acquitrinosi ed idiomi probabilmente già obsoleti nel 1976, ma per qualche strana ragione, si sospetta, tuttora ancora presenti da quelli parti.

Perché poi ciò che inquieta veramente, oltre al grottesco agricolo ben maneggiato da Avati, è proprio il limes silente, la sensazione di un confine imminente, ovvero quel lento scivolamento della fertile terra arata in vasta acqua salata; tutto ciò conferisce ai luoghi il sentimento di un epilogo geografico degno d’essere narrato, ma nel film superbamente relegato nel non detto, in atmosfera. “Adès, l’è tòtt cemènt e luci”, sosteneva Pier Vittorio Tondelli, girovagando da quelle parti negli anni ‘80, in direzione Rimini. Film, questo, che lo scrittore di Correggio probabilmente apprezzò, anche solo per il tragico riferimento al martirio di San Sebastiano dipinto dal fantomatico Buono Legnani. D’altronde se la costa adriatica festante è poi decaduta per eccesso ludico, da qualche parte nel noioso entroterra, è ancora possibile trovare una casupola diroccata, dai beffardi sorrisi dipinti sulle imposte. Nell’acqua lenta di un trapasso costante, dove la mattanza dei maiali si congiunge a quella delle anguille, considerando sacrificabili talvolta pure gli umani.

 

 

12-04-2016 | 22:56