Il Giro d'Italia. Di un volta.

Quella foto di Imerio Massignan detto gamba secca a macchiare di ricordi un muro del bar sul Passo Gavia: in piedi, sui pedali, con i capelli nero corvino appena mossi dal vento, un ghigno di fatica mentre, in maglia Legnago, scollina, stravolto.

Oppure quella figurina di Hinault, vincitore di tre giri, 1980, 1982, 1985 e detestabile per quel sorriso troppo guascone, troppo spaccone, troppo bullo per essere un eroe.

Il Giro ha consacrato nel tempo, innumerevoli leggende, e migliaia di storie. E tutte quelle vicende, ormai rimandano a un ciclismo antico.

Cosa aveva di epico quel ciclismo rispetto a questo? Tutto, bisognerebbe rispondere, tutto era epico. E lo è stato ancora per decenni, fino alla fine degli anni 90. Sappiamo poi cosa è successo, il doping quanti eroi ha cancellato, quanti ne ha annientati e quanti ne ha uccisi. Pantani, il più eroe di tutti, lo ha fatto fuori questa congerie di cose.

Charly Gaul, vincendo il Giro del 1956, era elegante. Le bici del suo tempo erano eleganti, sottili, sobrie, snelle, slanciate. Le borracce, spesso due, sul manubrio erano eleganti, i fili dei freni erano eleganti, i vestiti erano eleganti e le scarpe di cuoio traforato ancor più.

Le magliette di lana con il ricamo dei primi sponsor davano l’idea della fatica, del sudore da assorbire, del freddo e del caldo. I giornali vecchi da mettere davanti alla pancia in discesa per proteggersi dall’aria un segno di ostinazione, molto più di un K-Way.

Nelle borracce forse, oltre all’acqua, o al tè caldo, ci stavano le bombe. Quei pericolosi intrugli fatti in casa con zero competenze mediche che davano la spinta. Chissà cosa si sono bevuti almeno tre generazioni di ciclisti. Si dice che il doping non sia nient’altro che l’evoluzione di quel retaggio. Sarà anche così, ma c’era più poesia anche nel bombone di Merckx, fatto con il Micoren. Pensare a Riccò che pratica un autoemotrasfusione in casa fa venire i brividi.

Quanti visi, quanti profili annientati dalla fatica abbiamo visto sulle strade di montagna o di pianura del Giro? Quanti ne sono passati tra quei tornanti di eroi del pedale, insieme a faticatori anonimi, portatori di borraccia. Che magnifico gesto portare la borraccia al capitano, o all’uomo di tappa.

Nella memoria, nella bacheca personale degli eroi, vivono solo pochi di quei volti: ognuno per un motivo, forse per affetto, simpatia, stima, umana condivisione o semplicemente per una vittoria, uno scatto in salita, uno stile, un modo di pedalare.

G.B. Baronchelli, Roberto Visentini, Massimo Podenzana meritano di stare tra i primi cinque. Era formidabile il folle uzbeko Djamolidine Abdoujaparov, di professione velocista; vincitore di una sola tappa alla corsa Rosa, si aggiudicò la classifica a punti nel 1994. Con quel suo caracollare di bici a destra e sinistra era un pericolo vero per gli avversari, per se stesso e per il pubblico. Il massiccio ciclista sovietico che di cadute se ne intendeva, soprattutto nelle volate che affrontava sprigionando la sua potenza, avanzando a zig-zag e  dimenandosi vistosamente sui pedali, era soprannominato il “terrore di Taskent”.

La sua carriera si è chiusa in maniera ingloriosa nel 1997, positivo a 6 controlli antidoping.

Ma il più formidabile di tutti è stato per certo Laurent Fignon, il professore. Elegante e raffinato, sembrava posarsi sulla bici senza fatica, con una sobria alterità. Ricordiamo le battaglie con Bernard Hinault, con Greg Lemond e con Francesco Moser a cui contese il giro d’Italia del 1984, arrivando secondo.

Fignon è morto a Parigi il 31 agosto 2010, a cinquant’anni. Se lo è portato via un cancro. A lui brindiamo con uno struggente Borgogna rosso del 1960, il suo anno di nascita, e nelle tracce di quel vino lo ricordiamo in sella, con gli occhiali Cartier d’oro, troppo signore per un altro Giro.

 

 

23-05-2017 | 20:49