Il potere specula sull'ignoranza?

Mentre oggi la "Buona Scuola" di Renzi sta per concretizzarsi, c’è da augurarsi che venga invertita la tendenza dell’Italia (di ieri e di oggi) di umiliare la scuola e chi ci insegna. Anche se resta il dubbio che spesso in Italia si sia realizzato quanto abbia paventato e ripetuto più volte da Milena Gabanelli, tanto che alcune sue parole hanno cristallizzato in aforisma un concetto antico, per cui "il potere specula sull’ignoranza dei cittadini".

Ma, da “scuola” fino a “ginnasio” o “liceo”, basterebbe guardare in controluce il nostro vocabolario e le sue etimologie, per comprendere quanto dobbiamo ai nostri antenati greci, per rendersi conto di quanto siamo debitori di modelli e di cultura (anche educativa) rispetto al mondo classico. Dove, per inciso, i personaggi più celebri hanno spesso goduto della guida di filosofi, poeti e grammatici di vaglia.

In principio, nella mitologia, ci fu Mentore, una sorta di maestro (termine da intendere nella sua accezione più ampia) e di guida per Telemaco, figlio di Ulisse e di Penelope. E il suo nome, perdendo l’iniziale maiuscola, divenne quello del maestro per antonomasia, non solo grazie a Omero, ma anche alla letteratura successiva, in particolare nell’opera “Les aventures de Télémaque” di Fénelon (1651-1715). Mentore guida, aiuta, consiglia Telemaco, figlio di Ulisse, durante l’assenza del padre. Oggi il Dizionario Treccani, come altri, lo riporta come nome comune e chiosa: “Fido consigliere, guida saggia e paterna”.

Ma, uscendo dal mito ed entrando nella storia antica, si può constatare facilmente come i nostri antenati greci e romani avessero perfettamente compreso quanto importanti fossero maestri e professori. E forse non fu un caso che a nutrire la sete di scoperta e di conoscenza di Alessandro Magno fu niente meno che il filosofo Aristotele. Che non si fece pagare poco, anche se chiese un compenso un poco singolare. Quando fu chiamato da Filippo il Macedone come educatore del figlio Alessandro, il grande filosofo chiese come salario la ricostruzione della sua città natale, Stagira, che era stata rasa al suolo dalle truppe macedoni. Su Alessandro Giovanni Pascoli, nei “Poemi conviviali”, scrisse:

Montagne che varcai! dopo varcate,

sì grande spazio di su voi non pare,

che maggior prima non lo invidïate.

Azzurri, come il cielo, come il mare,

o monti! o fiumi! era miglior pensiero

ristare, non guardare oltre, sognare;

il sogno è l’infinita ombra del Vero.

Passando dalla Grecia a Roma, ecco che Nerone, nel quinquennio iniziale, quello più illuminato, ebbe il filosofo Seneca, uno dei maggiori autori della latinità, come raffinata guida. Peraltro, maestri antichi non andavano tanto per il sottile: Orazio ricorda ancora, nei suoi versi, le percosse del maestro Orbilio, definito <plagosus>, con un aggettivo latino poco rassicurante, che non ha bisogno di traduzione. E del resto, persino tra gli schiavi, a Roma, i grammatici erano tra gli acquisti più ambiti, pagati a peso d’oro dalle famiglie più abbienti, come dimostrano numerose fonti antiche.

Certo, questi erano docenti privati, precettori. Ma se si pensa a Quintiliano, oratore e professore ai tempi assai stimato, ecco che già nella Roma imperiale possiamo trovare uno dei primi professori ad essere pagato dallo Stato per iniziativa di Vespasiano. Non solo: a lui, quando si ritirò dall’insegnamento, Domiziano affidò il compito di precettore dei suoi due pronipoti, gli eredi al trono. Certo, non mancavano le invidie dei letterati dell’epoca: nella satira VII di Giovenale si parla in tono dispregiativo dei precettori chiedendosi quanto effettivamente costi un “Quintiliano”: e peraltro, vari secoli dopo, costava molto anche un Erasmo da Rotterdam, che fu precettore di Carlo V; come oggi costa parecchio un intellettuale come il normalista Marco Rinaldi, intervistato qualche anno fa da “Il Giornale”, al servizio di ricche famiglie (del resto come dimostrano alcune inchieste giornalistiche, sta ritornando la moda del precettore iperpagato nelle famiglie più abbienti).

Insomma, se è vero che cultura in definitiva significa potere, le classi dirigenti non rinunceranno mai a un’istruzione di qualità. Costi quel che costi. Il popolo? Meglio non eccedere nell’istruirlo: potrebbe cominciare a pensare e diventare pericoloso.

 

 

16-03-2015 | 13:41