Il Satyricon e il suo mistero

Un’opera che, dalle sue pagine, trasuda suoni e frastuoni, vizi e riferimenti letterari, un monumento letterario di innovazione, un magnifico spunto per il Genio felliniano: tutto questo e molto di più è il Satyricon di Petronio.


Unico romanzo della letteratura latina, escluse le Metamorfosi di Apuleio, il Satyricon costituisce un grande punto interrogativo per tutti i filologi e gli studiosi classici. Infinite le discussioni e le teorie sull’autore, sulla datazione, sull’architettura portante, linguistica e contenutistica, dell’opera; infinite le dissertazioni sui personaggi e sui modelli letterari. Molti dubbi hanno trovato terreno fertile per impiantarsi e svilupparsi nella incompiutezza dell’opera (possediamo solo frammenti del XIV, XV e XVI libro) e nelle sue caratteristiche al di fuori di ogni schema narrativo canonico. 
Semplificando e limitando le speculazioni filologiche - a volte assolutamente vacue -, è possibile affermare che il Satyricon è un romanzo di I secolo d.C., scritto al tempo di Nerone da un certo Petronio, di cui ci parla lo storico Tacito.


Mentre l’imperatore divertiva i suoi sudditi in molti anfiteatri nel territorio italico con performance musicali e teatrali degne di una star, mentre volgeva al termine il quinquennium felix, cinque anni di governo moderato, all’insegna di riforme oculate e proficue, e Nerone ordinava l’uccisione di precettori e consiglieri, del fratellastro Britannico e della madre Agrippina, mentre si consumava il terribile incendio che ridusse molte quartieri di Roma a un cumulo di cenere fumante (correva l’anno 64 d.C.), un raffinatissimo intellettuale di nome Petronio componeva un’opera mastodontica, in una ventina di libri, il Satyricon, appunto.


Tacito, serio e austero storico di II secolo d.C., ci racconta la vita di Petronio Arbitro: costui dettava le mode in termini di abiti, cibi, viaggi proprio alla corte di Nerone, decideva cosa fosse glamour e cosa no, dava feste e banchetti, si arricchiva anche grazie ad incarichi pubblici, dormiva di giorno e viveva di notte, aveva molti amanti tra donne e giovinetti. Era una sorta di Jep Gambardella ante litteram, festaiolo e colto, con grandi aspirazioni letterarie, inserito alla perfezione nell’élite sociale di una Roma gaudente, danarosa e spensierata, eccessiva e amorale.


Petronio, in mezzo a tutte queste occupazioni, scrive e fiuta molte correnti letterarie contemporanee, piega le orecchie a molte discussioni che infiammavano i circoli intellettualistici: nel Satyricon c’è il dibattito sulla decadenza dell’oratoria, c’è una polemica nei confronti della poesia epica e mitologica e, di riflesso, nei confronti di Virgilio e Lucano, intoccabili miti letterari che Petronio deride apertamente. Egli si attribuisce consapevolmente il ruolo e la sensibilità che sono propri dell’intellettuale di ogni tempo: cogliere, parafrasare e tramandare vizi, virtù, valori, inquietudini, tendenze e scelte del mondo in cui si è pienamente inseriti, rifiutandolo o assecondandolo pienamente. Petronio compie questa seconda scelta. Dopo di lui, i mutamenti della Storia e dell’umanità ci verranno tramandati, in maniera schematica o allegorica, da Paolo, Agostino e i padri della Chiesa, Ariosto e Machiavelli, Balzac e Flaubert, Leopardi e Baudelaire, Wilde e Joyce, Ungaretti e Pavese.

Ognuno di questi giganti della letteratura guarda al mondo e alla società di cui è parte, attraverso gli occhi della propria dimensione personale e intimistica, della propria sensibilità, dando risposte e visioni di volta in volta diverse; ognuno descrive nella propria opera gli eventi trasfigurandoli e riportandoli ai valori personali e storici, letterari e artistici, del proprio tempo. Così Petronio ascolta, osserva e scrive, dipinge su carta l’affresco moderno e accattivante della società romana di I secolo, rammollitasi nella sicurezza del potere gestito dall’alto, che ha diffuso i propri valori in tanta parte del mondo allora conosciuto, ricavandone prestigio e potere, oltreché immense ricchezze, e che si cimenta consapevolmente in ogni sorta di corruzione. Fornisce a questo affresco forma letteraria, una trama e personaggi fissi, Encolpio, Eumolpo, Gitone, tra gli altri: è una babele di feste, incontri, viaggi su mare, naufragi, orge, litigi, ricongiungimenti.

Petronio connette il tutto in una struttura romanzata e, scelta non casuale, in un linguaggio di immediata comprensione, lontano da virtuosismi linguistici e complessità sintattiche. Il Satyricon doveva essere un romanzo che ogni cittadino medio potesse leggere senza difficoltà e senza una grosso bagaglio culturale alle spalle. Niente a che vedere con le epistole filosofiche di Orazio, con i saggi stoici di Seneca e con l’elaborazione formale dei carmi di Catullo. L’obbiettivo era arrivare a tutti, anche attraverso la scelta della lingua che ogni giorno era parlata e gridata nelle piazze, nelle botteghe, nei lupanari, nelle case: si scade nella volgarità, nell’oscenità, nell’imprecazione, ma è il prezzo da pagare per una letteratura di consumo, per una rappresentazione cruda e diretta di un mondo depravato e perverso. Il risultato fu garantito, i frutti di queste scelte sono evidenti tutt’ora.

Il Satyricon si legge con curiosità, suscita il riso, impressiona, scatena l’immaginario, ha immagini forti. Non è un caso che un maestro dell’arte cinematografica come Federico Fellini guardò con occhio interessato e attento all’opera petroniana e, in particolare, all’episodio della Cena Trimalchionis. Ne colse le potenzialità e la grandezza, le luci e le ombre dei personaggi, l’atmosfera sfarzosamente decadente, trasponendo il tutto nel Satyricon (1969), pellicola che, come già il romanzo, diventa il paradigma della decadenza morale, dei vizi e della superficialità dell’uomo, in ogni epoca e in ogni luogo.

Petronio, Satyricon, Rizzoli, 1995.


Satyricon, film. 
Regia: Federico Fellini
 - Origine: Italia, 1969
 - Cast: Martin Potter (Encolpio), Hiram Keller (Ascilto), Max Born (Gitone), Salvo Randone (Eumolpo), Mario Romagnoli (Trimalcione).

 

 

09-07-2014 | 15:37