Il silenzio della ferocia

In giorni, mesi, anni come questi, in cui, se va bene, indifferenza alternata a diffidenza e odio strisciante per il "diverso da noi" serpeggiano in un mare di sordide ipocrisie politicamente corrette, un film come Dogville di Lars Von Trier andrebbe visto almeno un paio di volte. Magari non prima di andare a letto, ma nemmeno troppo presto. Deve essere buio, lì fuori, per resistere al buio qui dentro. Bisogna partire, perlomeno cromaticamente, preparati.

Probabilmente vi mancherà l'aria, vi direte che forse no, non era un film adatto per un giorno di mezza estate. Ma, se resisterete alle prime scene, il colpo vi arriverà di certo e non vi farà mollare la visione. La famosa lingua che batte dove il dente duole. Qui duole, e parecchio, ma ne vale la pena, magari per il famoso esame di coscienza, quello vero e non quello da domenica del villaggio. Non quello di Dogville e dei suoi abitanti, che se li guardi bene ti ricorderanno probabilmente qualcuno che nella vita, mentre arrancavi armato delle migliori intenzioni, ti ha fatto sentire sporco, inadeguato, smarrito, sconfitto, spaventato, anche per il solo bisogno di vicinanza e calore. 

Arriva, un colpo duro e secco, come le linee di gesso che disegnano le case del paesino della provincia americana in cui Grace (interpretata da un'ottima Nicole Kidman pre botulino selvaggio) giunge, fuggitiva e bisognosa di aiuto.

Una voce narrante dal timbro intenso e teatrale ci guida alla scoperta di questo luogo agghiacciante, il minuscolo borgo in cui la protagonista cerca un rifugio familiare, un'accoglienza rassicurante come in certi libri si racconta nei paesini piccini picciò.

La comunità, dopo un’ iniziale diffidenza davanti alla bellezza ed all'eleganza "esotica" di Grace, pare iniziare aprirsi alla ragazza, grazie soprattutto alle prediche di Tom (Paul Bettany), melenso e ipocrita campione di catechesi per il popolo, che convince i suoi concittadini ad aiutare una giovane in difficoltà offrendole di rendersi utile e, quindi, di ripagare l'accoglienza con alcuni lavoretti e servigi. Grace ha due settimane per farsi accettare. E verrà accettata, eccome, ma non nel senso che credeva. Diciamo che verrà fatta a pezzi, dall'accetta implacabile di una comunità ottusa, sessista e segretamente feroce, che vedremo vagare e sedere in strade e case senza mura e senza arredi, con un cielo di tela a schiacciarla al suolo, insieme a tutto il suo becero orrore.

La scenografia è impressionante, mastodontica nella sua nudità, una specie di incubo. Von Trier ancora una volta si supera nella sua capacità di sventrare il cuore delle cose, fino a fartelo sobbalzare in mano. E questo cuore è un cuore scuro e cattivo, che tutti, chi più chi meno, sentono battere intorno a sé nelle più o meno piccole comunità, non appena un elemento alieno si presenta a spostare le linee ben disegnate dell'umana pochezza. 

Grace attraverserà prima la fase dello sgomento e dell'umiliazione,  poi quella della cieca e ottusa sopportazione figlia del senso di colpa e, infine, sarà un angelo vendicatore più spietato dei suoi aguzzini, infelicemente vincitrice perché diversamente sarebbe stata spinta irrimediabilmente nel pozzo nero dal branco affamato, insieme agli ossi di chi prima di lei aveva osato integrarsi al "gruppo" senza difese e bisognoso di accettazione. 

Nei  titoli di coda scorrono fotografie ben chiare nel loro intento narrativo: allegorie figlie di un’America gretta, perbenista, crudele ed egoista. Ma attenzione, non si tratta solo dell'America. Sentiamoci chiamati in causa tutti, nelle nostre tiepide case, a fare tanti bei discorsi e poi pronti a dare un calcio alle mani tese, se si tendono troppo vicino al nostro miserabile fuocherello che scoppietta ottusamente chiuso accanto al nulla.

 

 

08-05-2015 | 13:30