L’indocile rosa d’Inghilterra

Nomen omen: un nome, un destino. E allora semplicemente: D come Diana, D come Diva, D come Died. Venerata come una magnanima regina di cuori, idolatrata come la passionale pop star dell’apatica royal family britannica, mitizzata come tutte le celebrity fulminate da morte precoce. Lady D (foto in alto) andrebbe ascritta al funesto club dei misteriosamente defunti under 40 (Marilyn Monroe in primis) o a quello sventurato dei forever young stritolati tra motori e lamiere (James Dean, il Grande Torino della Tragedia di Superga, Fred Buscaglione, Otis Redding, Rino Gaetano, Grace Kelly, Gaetano Scirea, John John Kennedy e Carolyn Bessette).

Diana nasce aristocratica nell’antichissima e blasonatissima famiglia Spencer (Sandringham, nel Norfolk, 1 luglio 1961) e diventa leggenda planetaria quando, goffa ventenne, viene impalmata in mondovisione, il 29 luglio 1981, dal principe Carlo nella Cattedrale di St Paul, tra plotoni di sudditi esultanti, in una fiabesca mise da opulenta pasticceria in versione cockney: tutta rigonfia di strati di seta lattiginosa come una matassa di zucchero filato, con uno strascico di ben sette metri, a firma dei compatrioti David ed Elizabeth Emanuel. E con questa meringa nuziale - ormai un gold standard, un classico intramontabile - la neo principessa di Galles si tramuta da paffutella maestrina d’asilo in favola popolare di un nuovo e moderno stile regale, opposto agli asfittici diktat estetici dell’incartapecorita Corte di San Giacomo: gusto disinvolto e insofferenza al rigore.

Intanto si affastella l’indomita soap opera del gossip scandalistico, voracemente avventato su un matrimonio tra adulteri, condotto con mènage à trois perfettamente bipartisan tra intercettazioni telefoniche e confessioni televisive, lacrime chiacchiere vendette, rivalse ripicche rappresaglie: tutto esposto al famelico ludibrio del morboso voyeurismo internazionale, fino alla separazione legale (1992) e al divorzio ufficiale (1996). Ma in mezzo al melò rosa da romanzo d’appendice, germoglia la metamorfosi di Diana: da sposina teenager ancora un po’ impacciataa diva très chic, sì un po’ mesta e inquieta, forse anche nevrotica e instabile, affetta da bulimia e depressione, dispettosa e manipolativa, pure totalmente priva del proverbiale self-control british, ma anche alquanto scafata nell’utilizzo dei mass-media. La spendacciona Lady D, intenta a fabbricare il proprio ammaliante mito fashion, sboccia così in un’eleganza internazionale plasmata prima (anni ‘80) dai connazionali brand d’oltremanica, poi (anni ‘90) dal lussuoso made in Italy (in pole position l’amico Gianni Versace), sempre pervasa da una composta spigliatezza e venata di una sobrietà priva di orpelli, in un mix di autorevolezza e freschezza.

Ora lo scrittore Carlo Mazzoni ne immortala grazia e glamour in Timeless Icon (Icona senza tempo, Electa, pp. 124, illustrato a colori, bilingue ita/ingl, euro 49, foto in basso), rigogliosoalbum composto da cento foto informali (non posate, non autorizzate, non ritoccate) sponsorizzato da Tod’s (altro suo marchio d’elezione per mocassinie it-bag, come la celeberrima D Bag a lei dedicata): parte del ricavato verrà devoluto a favore della Clic Sargent for children with cancer, ente benefico di cui Diana è stata madrina per un decennio. E così Lady D abbaglia da queste sontuose pagine, sempre fasciata in outfit onirici e scanzonati (foto in basso): affusolata in un sinuoso abito a sirena da grande soirée, danza con John Travolta al galà alla Casa Bianca di Reagan nel 1985; avvolta in un prendisole monospalla rigato, coccola uno dei suoi pargoli a Palma de Mallorca nel 1986; immersa in un total look scarlatto, elettrizza a una cena di charity a Buenos Aires nel 1995; semplice e casual in pantaloni a sigaretta color kaki e giubbotto antiproiettile, è testimonial per la Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo in Angola nel 1997.

Insomma, mamma affettuosa e premurosa di William (1982) e Henry (1984), nonché filantropa e caritatevole ambasciatrice pro bono (contro lebbra e Aids, a favore di tossicodipendenti e senzatetto, accanto a Nelson Mandela, Dalai Lama, Madre Teresa di Calcutta), l’anticonformistica principessa del popolo è capace di governare, con carisma ed empatia, i devoti animi umani ben oltre gli sconfinati reami del Commonwealth. É un’indocile eroina romantica scivolata via sull’asfalto, il 31 agosto 1997, in una scia di segreti con lo spaventoso schianto della Mercedes-Benz S 280 contro il tredicesimo pilone del tunnel di Pont de l’Alma a Parigi. Un crash fatale per la giovane Diana, il fidanzato-playboy Dodi Al-Fayed (figlio di Mohamed, spregiudicato affarista egiziano ed ex proprietario dei magazzini Harrods di Londra), l’improvvisato autista Henri Paul (responsabile della security dell’Hotel Ritz di Place Vendôme). Un solo superstite: la guardia del corpo Trevor Reers-Jones, unico a indossare la cintura di sicurezza.

Comunque sia andata - come ha cantato Elton John nella riadattata ballata Candle in the Wind (Candela nel vento, scritta nel 1973 per Marilyn Monroe)il 6 settembre 1997 alle pubbliche e solenni esequie nell’Abbazia di Westminster, tra lo sgomento collettivo - ancora “Goodbye, England's rose”, “Addio, rosa d’Inghilterra".

22-11-2013 | 21:03