L'aborigeno che osò sfidare l'Inghilterra

Gesang its Dasein, Cantare è esistere, scriveva Rainer Maria Rilke nel Terzo sonetto a Orfeo.

I miti aborigeni sulla creazione narrano di leggendarie creature totemiche che nel Tempo del Sogno avevano percorso in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano – animali, uccelli, pozzi, rocce, piante –, e col loro canto lo avevano fatto esistere. Quel dedalo di sentieri invisibili che coprono tutta l’Australia è noto agli europei come «Piste del Sogno» o «Vie dei Canti», mentre gli aborigeni lo chiamano «Via della Legge» o «Orme degli antenati».

Prima che sull’isola arrivassero gli inglesi, gli aborigeni regolavano le proprietà della terra sulla base di regole tramandate dalla tradizione orale. Trattandosi di convenzioni ampiamente codificate, ma non scritte, i coloni non le ritennero valide. Per gli inglesi l’Australia era Terra nullius: così terre che erano appartenute alle famiglie indigene per più di sedici generazioni non solo non erano mai state di proprietà di nessuno prima della colonizzazione, ma appartenevano di diritto alla corona britannica.

Edward Koiki Mabo nacque nella culla tropicale dell’Isola di Murray, minuscolo limbo di terra dell’arcipelago nello stretto di Torres, ponte marittimo che separa l’Australia da Papua. Eddie era un aborigeno atipico, curioso, socievole e amante del dialogo. Padre di dieci figli, con pochi soldi, dopo aver svolto innumerevoli lavori, riuscì a farsi assumere nel 1971 all’Università James Cook di Townsville come giardiniere. Lì, a causa del suo carattere affabile, era solito intrattenere lunghe conversazioni con studenti e professori.

Durante una di queste, mentre raccontava appassionato della sua isola a Noel Loos e Henry Reynolds, venne a sapere dai due che la terra di cui stava parlando con così viscerale affetto in realtà non gli apparteneva, perché era di proprietà della Corona. Con la faccia piena di stupore, Mabo rispose: “Niente affatto, è nostra, non loro”. In quella secca, tagliente e lucida risposta che quel piccolo essere umano fornì ai due impettiti docenti, è racchiusa tutta la forza di chi per vent’anni ha lottato senza mai darsi per vinto, e di una popolazione che con l’avvento della modernità ha quasi rischiato di scomparire: dal XIX secolo in avanti, infatti, la popolazione aborigena si ridusse del 90 percento.

La filosofia degli aborigeni era indissolubilmente legata alla terra. Era essa che dava vita all’uomo; gli forniva nutrimento, mezzi linguistici e intelligenza, e quando lui moriva se li riprendeva. La «patria» di uomo, qualunque essa fosse, era un’icona sacra che non doveva essere sfregiata.

Quella terra era loro ab origine, «fin dall’origine», e così doveva restare. Nel 1981, durante una conferenza tenutasi all’università in cui lavorava, Mabo espose il sistema di eredità legato alla successione della terra nella sua isola di Murray, attirando l’attenzione di un avvocato che decise di sposare la causa e aiutare i nativi nella rivendicazione dei loro diritti di proprietà.

Fu la genesi di una lotta decennale che culminò il 3 giugno 1992 – cinque mesi dopo la morte di Koiki, scomparso a soli 55 anni a causa di un cancro – con un pronunciamento storico da parte dell'alta corte australiana, che rovesciò lo status giuridico di terra nullius. Uno svincolo che ha cambiato il resto del continente australiano, per sempre.

Cosa ci insegna oggi l’esperienza di Eddie Mabo? Tantissimo. In primo luogo, che è dalla nostra umanità intrinseca che dobbiamo ripartire. Se un uomo che ha visto il proprio popolo sistematicamente sfruttato e ridotto all’osso ha avuto il coraggio di battersi ad armi impari per quello che riteneva un diritto inalienabile, significa che c’è una dimensione del nostro essere capace di dominare gli istinti più biechi e di anteporre il bene collettivo a quello individuale.

In secondo luogo, la vicenda di Mabo dimostra come la violenza implicita al modello neoliberista di derivazione imperiale, possa essere disarmata con la forza di volontà: l’esistenza stessa di Mabo ne è una limpida riprova. Potrà sembrare semplice retorica, ma il phylum che collegava Mabo ai suoi antenati non era monetizzabile, e mai lo sarà. Infine, la fiducia che l’uomo ripose nelle corti di giustizia europee, ci induce a dover riprendere in mano il concetto di fratellanza. Secondo la letteratura orale aborigena, in base a ogni animale totemico, ogni Uomo credeva di discendere da un Padre, antenato di tutti gli altri Uomini del mondo e di tutti gli altri membri di quel clan.

Oggi ci si odia – letteralmente – in base all’identità, alla semplice provenienza, per partito preso e per educazione culturale, e il più delle volte lo si fa senza un fondamento reale o senza sapere bene il perché. E se fossero sbagliati i fondamenti sui quali costruiamo la nostra identità?

 

 

24-01-2015 | 00:05