L'amore disperato di Pablo e Dora

Nulla della vita di Pablo Picasso è andato a morire da qualche parte, dimenticato. Nel labirinto cubista degli amori malsani e delle solitudini affollate del celebre pittore è vissuta anche Dora Maar, nota ai posteri soprattutto per esserne stata l’amante. Sicuramente meno conosciuta per la sua opera (riesumata oggi dalla critica “nonostante Picasso”) era fotografa di professione, trasformava i suoi personaggi ribaltandoli, li inseriva in moderne architetture estrapolati in deformazioni.

Nel 1936, a Parigi, Picasso trovò la musa più grande e, insieme, la più grande vittima del suo genio creativo. In un incontro ai tavolini di un bar, sotto le luci di una città stretta tra il Nazismo e le due guerre, lei giovane e bellissima, per ferire la noia, si tagliava davanti a un caffè con un coltellino le mani inguantate di bianco. Il pittore pretese i suoi guanti e li espose sopra una mensola nel suo studio. Pochi giorni dopo, con una dichiarazione d’amore surreale, la invitò a seguirlo senza voltarsi mai. Esplose così il sentimento di un uomo di cinquantaquattro anni per una ragazza di ventisei.

Sodalizio artistico di passione mentre la società gridava allo scandalo per l’incontro di due generazioni. Ma, per l’unione di una bellezza non comune con il genio dell’arte, l’età anagrafica non era nemmeno una metafora.

Il pittore amava la sua voce, la definiva unica, trascinato dal suo sguardo che riteneva straordinario, luminoso e limpido. Lui però era torbido e crudele, amava farle incontrare le sue amanti e tra litigi, suicidi e colpi di scena, costruì tutta la sua ragnatela sentimentale. In questo macabro valzer, forse, dipinse estasiato.

La giovane avrebbe ispirato tele sino a quando a Picasso non sarebbe apparsa l’ennesima amante da esibire in pubblico. Abbandonò così la donna che aveva pianto troppo, quella verde lacerata dal dolore, lasciandole una casa in Provenza e dei dipinti come regali di addio. Dora era diventata poco più dell’idea figurativa impressa sulla tela di un amore passato, inghiottito dal tempo dopo troppe scosse, troppe parole. Lei un giorno arrivò a dire che Picasso non era stato il suo uomo ma il suo padrone, la sua malattia.

Malattia d’amore sino al ricovero in una clinica psichiatrica, agli elettroshock, alla psicoanalisi con l’eretico Lacan ancora oggi respinto dai freudiani più ortodossi. L’illustre medico, per il quale il linguaggio operava solo nell’ambiguità, le aveva promesso la guarigione. Guerra dell’anima e inconscio reinventato per l’unica donna che aveva osato fotografare Picasso durante la lavorazione di Guernica partecipando anche alla stesura materiale di un’opera emblematica, nata durante il suo insolito e tragico amore, sacrificata al Minotauro, prestando il volto alla figura di donna che piange lacrime di chiodi.

Più tardi, ancora giovane ma depressa, iniziò a vivere una nuova vita. Ma prigioniera della sua mente malata rovesciò le notti e i giorni in infiniti tramonti. E novantenne, a Parigi, finì di morire.

 

 

03-03-2016 | 22:15