Le perversioni di Cristina

Regina bambina, salita al trono di Svezia nel 1632, a soli sei anni. La regina androgina, come l’avrebbe definita tre secoli più tardi, in due libri scandalistici, la principessa Lucien Murat. Cristina di Svezia, figura ambigua e affascinante, specchio di un secolo inquieto e contradditorio, in bilico tra i tentativi di moralizzazione imposti dalla Chiesa e le fragili frivolezze che vi si annidano in seno. Cristina è indiscutibilmente una donna, nonostante la sua nascita abbia suscitato qualche dubbio persino in suo padre. “Sarà abile perché ci ha ingannati tutti”, recita il re alla vista della nascitura, una strana creatura, nata con un elmetto di peli dalla testa fino alle ginocchia, dalla voce ruvida e potente, tale da far credere alle domestiche presenti fosse un maschietto.

Eppure Cristina, a modo suo, è anche un uomo, pur se non nel senso “naturale” del termine. Ciò significa che i suoi organi sessuali sono femminili, ma i suoi impulsi più reconditi le rendono invise certe “attitudini” da donna: frivolezze e “chiacchiere” banali non fanno per lei. Predilige di contro le abitudini maschili, gli esercizi fisici, la vita all’aria aperta. Il suo modo di pensare e i desideri che manifesta negli anni giovanili sono segnati dalla raffinatezza di uno spirito nobile e dall’alterigia di chi non accetta compromessi. Amante della cultura, fa di Stoccolma la “nuova Atene” e lei stessa viene soprannominata Saffo. Cristina è forse la donna che ha fatto più parlare di sé nel suo secolo. La Regina lascia il segno, infiamma i cuori, nonostante sia donna di eccessi, che liquida in modo dissoluto ogni dogma in fatto di amore, adusa a fare dei piaceri della carne un vezzo e un personale trionfo. E non fa distinzione alcuna né di rango né di lingua né tantomeno di sesso. Il principe elettore Edoardo di Baviera scrive così di lei in una lettera a uno zio: “Le belle donne le piacciono molto. Ne trovò una a Lione che le andò particolarmente a genio. La baciava dappertutto, sul seno, sugli occhi, in fronte, con grandissimo trasporto e voleva addirittura baciarla lingua in bocca e andare a letto con lei, ma quella non volle…”.

Cristina non è bella e non ne fa mistero. Si racconta infatti che una volta, cadendo da una carrozza nei pressi di Roma, abbia richiamato con risa sguaiate tutti i villani dai dintorni perché venissero a vedere le sue gambe tornite ricoperte di peli. Definita la “padrona di Roma”, per la capacità di contrastare i decreti papali e non solo. L’ha amata moltissimo per le sue feste barocche, per una certa leggiadria nei modi e nei costumi, che la rende città amata e preferita anche dalle cortigiane. Il papa Alessandro VII l’ha accolta trionfalmente dopo la dipartita dalla Svezia e la rinuncia al trono. Ne ha tollerato vizi e virtù, nonostante la regina lo sconvolgesse con i suoi eccessi poco devoti, eccessi d’altronde da lei mai negati. “Non sono una cattolica da palcoscenico”, avrebbe detto. Donna poliedrica e sfaccettata, amante delle lettere e dell’arte, tanto da impiantare nel palazzo alla Lungara una raffinata corte, ibrido di musicisti e letterati, e culla di un’accademia, da lei definita la Reale con l’intento di difendere la lingua italiana dal “gusto moderno per l’iperbole e l’esagerazione”.

E se Cristina odia gli eccessi nella lingua, non si può dire che li schivi nella sua condotta di vita. Si concede in egual misura a piacere lesbici e non. Durante il primo soggiorno romano non disdegna di farsi vedere in pubblico accarezzare il petto seminudo del conte Francesco Maria Santinelli e di suo fratello Lodovico, così come si concede senza fronzoli a lunghissimi baci con il marchese Gian Rinaldo Monaldeschi.  Che non fosse bella si è già detto, per via del naso adunco, del doppio mento vistoso e di una certa gibbosità che lei esalta pure, indossando spesso pantaloni aderenti alla cacciatora. È comunque donna che stuzzica e accende desideri, in virtù del fatto di non imporsi limiti e della sua capacità di indorare i tratti meno accattivanti esaltando quel che la natura le ha donato di piacente, il fondoschiena, un gran sedere che attira gli sguardi e che lei sa “sfruttare” con maestria, tanto da farsi raffigurare, dal medaglista Francois Parise, come Venere Callipigia. Ha amato con trasporto Ebba Sparre, damigella di corte, sua compagna di stanza. Il rapporto tra le due donne è ben documentato da un intenso epistolario risalente al periodo in cui la regina lascia la Svezia per la prima volta. Amore saffico o no, Cristina le scrive: “Quanto sarei felice se mi fosse permesso di vederVi, mia bella, ma sono condannata dalla sorte ad amarVi e stimarVi per sempre senza mai vederVi”. È il 6 gennaio 1656. E la corrispondenza con Ebba è intensa e toccante. Bella, dunque, è Ebba agli occhi di Cristina, aggettivo inconsueto nell’uso tra donne. E se è vero quanto dice Otto Weininger, quando afferma che dovremmo provare pudore nel chiamare qualcosa “bello”, poiché vediamo bello soltanto ciò che amiamo, allora è giusto attribuire alle parole di Cristina tutta la passione e la nostalgia di un autentico amante. Nonostante questo, la regina non disdegna di amare anche altri. Uomini, molti uomini.

Ma sono gli anni della giovinezza, quando ancora le brume della maturità non hanno giocato sulla regina il brutto scherzo di esaltarne ancor più i tratti mascolini, come le fattezze del naso singolare, il doppio mento sempre più cascante e ricoperto di peli. Il peso degli anni, poi, l’avrebbe resa curva, contorta e molto grassa, un’autentica palla, a parere del poco garbato memorialista Maximilien Misson. Ma questo succederà dopo. Dopo i sollazzi nella Roma papale, una babele completa nella cui culla ogni piacere è lecito. Ed è lecito pure che Cristina si innamori follemente di un cardinale, Decio Azzolino. Conosciuto dalla donna nel 1656, ne viene subito folgorata. Lui sì, è bello. Bello nel modo brutale e sfacciato in cui può essere bello un uomo. Ha 33 anni quando conosce la regina ed è uno dei prelati più in vista del sacro collegio. Azzolino e Cristina sono attratti in modo viscerale, e questo nonostante la regina si lavi poco ed emani pure un odore sgradevole a quanto scrivono di lei. Per il cardinale tanto eccesso diventa il più fatale dei giochi erotici e la loro relazione si fa di dominio pubblico. Un legame che durerà per tutta la vita, tra alti e bassi, soprattutto perché l’età lascerà segni molto più profondi sul corpo di Cristina che su quelli di Azzolino. Con rammarico lei scriverà: “La vita è troppo breve perché si possa amare come si deve”. Si lascia andare ancora a qualche lesbico sollazzo, ma la sua passione è affievolita, il lucore del suo ardore come spento.

Cristina ha creduto fino in fondo all’amore, con l’intensità quasi patologica che le deriva dalla sua stessa natura ermafrodita. “Dunque al desiderio e alla ricerca dell’intero si dà nome amore”, diceva Platone, come vana tensione umana, come tentativo di ricostruire fittiziamente l’unità perduta, attraverso il ricongiungimento fisico. L’Eros che salva il mondo dall’estinzione quindi (per dirla come Aristofane). Se visto sotto questa luce, l’androgino resta il luogo e lo spazio della coincidenza degli opposti, il simbolo di un’ipotizzata armonia originaria dispersa, capace di sfuggire all’idea di indeterminazione attribuita all’inimmaginabile, una sorta di archetipo che ingloba e seda l’ansia da contraddizione, luogo della fantasia dove l’uomo e la donna sono un tutt’uno. E se si considera veritiera quest’ottica, un po’ obnubilata dalla lanugine del romanticismo, anche la lussuria di Cristina appare un semplice e umano inno alla libertà.

 

 

21-05-2014 | 10:10