L'orizzonte di Herman Hesse

Dopo due giorni di viaggio in treno attraverso la Svizzera e l’Italia, Herman Hesse e l’amico pittore Hans Sturznegger arrivarono a Genova. Era il 6 settembre 1911 e il giorno successivo si sarebbero imbarcati dal porto della città ligure per andare verso Oriente. Questo viaggio era stato a lungo accarezzato e pianificato.

Più che un viaggiatore Hesse poteva essere definito un fuggitivo. Da pochi mesi era nato il suo terzo figlio e i legami familiari erano diventati sempre più opprimenti. Un tempo l’intellettuale inquieto si era illuso che il matrimonio e la paternità avrebbero guarito il suo malessere esistenziale, invece la vita borghese, coi suoi obblighi, era divenuta per lui insopportabile. Così, quando la nave mollò gli ormeggi, lo scrittore provò l’euforia della libertà ritrovata unita al desiderio di esplorare un mondo ancora sconosciuto: “Certo andavamo in Asia e l’Asia non era solo un continente, ma un luogo ben definito e un po’ misterioso, situato da qualche parte fra l’India e la Cina. Da lì erano venuti i popoli, le dottrine, la religione; lì si trovavano le radici di tutto il genere umano e le oscure sorgenti di tutte le vite, da lì provenivano le immagini degli dei e le tavole della legge”.

Traspare da queste parole un Oriente idealizzato fin dai tempi in cui i genitori, missionari in India, gli raccontavano storie di mondi e popoli lontani. Hesse era convinto che in questi luoghi fosse possibile un ritorno alle origini e che “rituffarsi nella sorgente della vita” lo avrebbe rigenerato. Tuttavia i problemi presero presto il sopravvento e la realtà si dimostrò piuttosto deludente. Già al primo scalo, nella città di Napoli, il bastimento fu messo in quarantena a causa del colera, e il caldo, gli insetti e altri disagi perseguitarono i due amici per tutto il viaggio: “Il ricordo della patria comincia appena ad attenuarsi, mentre l’Oriente aggredisce con il caldo, la sabbia, le albe precoci e i moscerini…”.

Quando Hesse e Sturznegger giunsero a Singapore, per poi spostarsi verso Sumatra, erano già esausti per la calura dell’Oceano Indiano:“Navigammo nella notte soffocante… respirando lentamente e controvoglia sotto il cielo nero e arroventato…”.

Dalla parte sud di Sumatra si diressero poi verso Palembang, percorrendo il fiume Batam Hari, a bordo di un piccolo battello cinese. Attraversavano città caotiche e una natura selvaggia, ma mano a mano che il viaggio procedeva tutto perdeva d’incanto: Hesse, legato al suo tranquillo angolo di Europa, detestava il caldo, i cattivi odori e non riusciva ad adattarsi al cibo che gli procurava fastidiose infezioni batteriche. Persino la bellezza di una natura selvaggia  appariva inquietante ai suoi occhi: “Qui la natura è incessantemente in fermento e di una fertilità impressionante, con una febbre forsennata di vita e di distruzione che mi stordisce…”.

Lo scrittore si sentiva minacciato da un mondo insidioso e feroce, da cui forse temeva di essere sopraffatto. Ogni tappa del viaggio lo costringeva a un continuo sforzo di sopportazione, giunto a Ceylon scrisse: “Una passeggiata si trasforma in una corsa faticosa e irritante sotto le forche caudine dell’industria turistica, (…) Imparai a evitare lo sguardo delle bellissime ragazzine dai neri occhi tristi quando mendicavano, imparai a respingere gelidamente i vecchi dai capelli bianchissimi che sembravano immagini di santi, mi abituai a un fedele codazzo di prezzolati di ogni tipo”.

Diventava sempre più palese che l'Oriente immaginato non reggeva il confronto con la realtà, né era il luogo carico di spiritualità in cui Hesse aveva sperato di trovare la pace interiore. Anche il Buddismo non aveva più nulla di mistico o di nobile, ma era degenerato in una ritualità vuota: “Dovetti mandare giù l’orribile scoperta che lo sguardo carico di interiorità, orante e anelante della maggior parte degli indiani non invoca gli dei e la redenzione, ma semplicemente il denaro”.

Ormai la sua resistenza era allo stremo e decise di rinunciare a proseguire per l’India. Prima della fine del viaggio Hesse ebbe un'illuminazione: durante l'ascensione al Petrotallagalla, la cima più alta di Ceylon, capì che nessuna fuga può risolvere l'inquietudine esistenziale, arrivando così alla conclusione a cui era giunto secoli prima Orazio: “Caelum non animum mutant qui trans mare currunt. Mutano il cielo, non l’animo, coloro che vanno per mare”.

 

 

13-01-2015 | 15:53