Oggi Pulp Fiction compie 20 anni

Sono passati vent’anni esatti dall’uscita di Pulp Fiction di Quentin Tarantino, un film che dall'esordio nelle sale cinematografiche, tra pareri entusiasti e qualche sopracciglio alzato, ha poi preso la porta principale della grande filmografia di sempre. È un raro esempio di classico e di unicum al tempo stesso, un’opera che ha esercitato vasta influenza sul cinema e sul linguaggio di tanti altri film e format televisivi, ma troppo forte e caratterizzato per generare, almeno per ora, epigoni alla propria altezza che non siano altri film dello stesso regista. Lo stile di Tarantino è molto individuabile, e nonostante le accuse di manierismo, si è diffuso con una velocità esplosiva un po’ovunque nei molti generi del film “d’azione”,  così ci si trova a constatare che questo o quel film ha momenti stilistici “tarantiniani” o “pulp”, entrambi neologismi consolidati.

Cosa significhi “pulp” lo si leggeva nella voce di vocabolario che campeggiava nei titoli di testa: “pulp n. 1. Un morbido, umido, ammasso di materia senza forma. 2. Una rivista o un libro contenente un argomento scandaloso e generalmente stampato su carta ordinaria”, un indizio che prendeva senso con lo svolgersi del film. In tanti uscivamo ammutoliti dalla prima visione, e inevitabilmente lo si tornava a vedere dopo averlo rievocato (per quanto possibile) agli amici, come una rivelazione da tanto tempo attesa; sembrava che il cinema si fosse rigenerato. Tipico dei capolavori, se c’era chi lo detestasse, nessuno ne restò indifferente, e fiorivano posizioni forti come non accadeva da anni. Parliamo di un film totalmente privo di qualsiasi morale, di un orizzonte di minima speranza, una cosa “senza scusanti”, senza compromessi, eppure la stoffa del grande film, del film colto e geniale era eclatante. Nulla su cui riflettere, niente da capire, se non l’ordine in cui è stato montato, come il filo della linea cronologica fosse stato spezzettato, ma capirlo non servirebbe ad amarlo di più, e anzi, lo si preferisce così com’è, un capolavoro di “montaggio incrociato” di cui non sappiamo con certezza dove inizi e dove finisca. Siamo affezionati più al racconto, (la distribuzione degli accadimenti deciso dal montaggio delle scene), che alla storia (lo svolgimento ordinato dei fatti) tanto che voler rimettere le cose in ordine suona come uno scrupolo un po’ da guastafeste, un dispetto all’opera. Di questo tipo di montaggio, infrequente e difficilissimo da realizzare, è il film per antonomasia degli ultimi decenni, e la sua “intrigatezza” rende il piacere di rivederlo sempre maggiore, porta a ripensarci con nostalgia, come ad un discorso lasciato aperto che prosegue senza di noi, non potendone individuare una vera conclusione, una fine triste o lieta che sia. A un tratto, improvvisamente, finisce. In  virtù di un montaggio che ignora il percorso del tempo lineare, che mischia momenti diversi della stessa vicenda, protagonisti e antagonisti si scambiano vicendevolmente di posto, annullando le proprie funzioni dentro la storia, ribaltandone le gerarchie a seconda del punto d'osservazione.

Dire che è un lavoro che non invecchia ha qui ha un senso abbastanza preciso: non c’è nulla che leghi il film all’anno o al decennio in cui venne girato; non ci sono oggetti, scarpe, automobili, abbigliamento che ci impongano che è più o meno il 1994, cosa arguibile solo guardando con attenzione e intenzione. Ogni oggetto che abbiamo di fronte per una consistente durata è come slittato, spostato vagamente all’indietro nel tempo (ad eccezione dei telefonini con antenna estraibile e le dimensioni robuste, ma li si vede poco), sono quasi tutti oggetti “classici”, di forma piuttosto standard nel proprio genere. Il film pulp, fumettone su pellicola, ha un’aria di retrò confuso e diffuso su tutti gli oggetti che connotano personaggi e situazioni, collocati in un tempo vago, non definibile e dunque privati di quell’ “effetto datato” che andrebbe a discapito della longevità del film. È certo un film d’azione, le storie che si intrecciano e incontrano sono pulp nella sostanza: un pugile che trucca un incontro; due killer che devono recuperare una valigetta dal contenuto inestimabile e misterioso, mai menzionato; una specie di sicario che accompagna la moglie del capo in una serata con un finale a sorpresa. Queste le basi, su cui fioriscono tante diramazioni, una più sorprendente dell’altra. Più cose rendono Pulp Fiction oggettivamente unico: la tecnica di ripresa e montaggio magistrali, un cast perfettamente assortito, tra cui ritroviamo star riemerse dall’oblio generale, come Travolta;  poi c’è la centralità della sceneggiatura, come non la si vedeva da tempo, una colonna sonora di pezzi straordinari  e inspiegabilmente sconosciuti (almeno in Italia), genialmente abbinati alle scene del film tanto da diventare elementi primari della narrazione, e subito divenute cult onnipresenti, tra rèclame e sigle di format tv. Un capolavoro di creazione e stile, ma a volersi soffermare su di un paio di cose che definiscano questa sua unicità, scopriamo l’arte di giocare coi tempi della narrazione, il lusso narcisistico di indugiare su poco e niente, che Tarantino ha inventato.

Il flusso narrativo, infatti, si ferma lasciando minuti interi a disquisizioni su argomenti di una banalità al limite dell’ebefrenico, ma che a furia di rivederli, li si impara quasi a memoria. Come il resoconto delle piccole differenze tra Europa e America che fa Vincent a Jules in auto, una lista di cose che ha notato mentre era in Europa; cose che potrebbe raccontare, con tale convinzione e meraviglia, un sedicenne dopo una vacanza, ma l’effetto è irresistibile, visto che i due ne hanno sui quaranta; e così apprendiamo che a Parigi hanno il sistema metrico decimale, quindi da Mc Donald, il Quarto di libra con formaggio si chiama Royal with cheese. Poi c’è l’intonazione di Ezechiele 25, 17 recitata da Jules a due poveracci prima ammazzarli, parodia biblica scritta per il film e ancora oggi celebre e creduta perlopiù autentica; il resoconto della caduta dal terzo piano di tal Tony Rocky Horror; il racconto a Butch bambino della vicenda dell’orologio del nonno, poi tramandato al padre, tenuto nascosto nel retto durante gli anni di prigionia nella Guerra di Corea. E diversi altri, più o meno ampi, sparsi nel film. L’espediente della digressione, del racconto o di più racconti nel racconto, che allunga e arricchisce il ritmo narrativo e l’intreccio, non sono una novità in letteratura e nemmeno nel cinema, li si trova già nell’Odissea; la novità è che in Pulp Fiction si resta conquistati da racconti di grande vacuità di contenuti, al limite del non-sense, ma miracolosamente non pretestuosi, di forte ragion d’essere nel mondo possibile del film, tanto ben scritti e recitati da donar loro una parvenza di serietà. Disquisizioni che possiamo trovare in un telefilm in scambi di una manciata di secondi, qui assumono una statura formale da grande monologo: quello che fa Marlon Brando nel Giulio Cesare hollywoodiano, lo fanno personaggi da poliziesco, da B-movie, ma con pari durata e dignità. E al cinema nessuno fiatava. Questa è una delle cose che ci fanno pensare a Quentin Tarantino quando le ritroviamo altrove. Poi c’è la fotografia, straordinariamente bella per tutto il film, ma che dà il meglio di sé nel catturare gli istanti del mattino, la precisione della luce che sembra dirci da sola che ore sono, sia che attraversi infissi socchiusi, sia all’aria aperta, magistralmente combinata coi rumori di fondo della città, così che sembra davvero di esserci in quella folle mattinata a Los Angeles.

 

 

28-03-2014 | 11:37