Povera Costa Smeralda!

Costa Smeralda, Porto Cervo, Porto Rotondo, Baia Sardinja (si prega: con l’J lunga, che per i post-alfabeti si chiama jay). Nomi senza storia, nomi di non-luoghi, nomi da Monopoli, da Topolinia, da Paperopoli. E l’edilizia – chiamarla architettura sarebbe una bestemmia – è in tono: senza memoria, senza storia, senza luogo, senza gusto, ossia conoscenza di memoria, storia ed esperienza dei luoghi.

Un sud vacanziero immaginato sul Messico di Speedy Gonzales – Porto Rotondo è un perfetto fondale da cartone animato di Speedy – o sul Marocco di Paperino. Patii e logge e portici molli come chewing-gum. Cimase ricurve in stile Cucaracha cantata al rallentatore da Pancho, il topo grasso amico di Speedy. Balconi da Alhambre sognate da Pippo, con Clarabella travestita da baiadera. Dai giardini occhieggia qualche nuraghe in piccolo, nuovo di trinca: spesso un forno per fare la pizza. Chi ha fatto queste case – peggio ancora chi le ha comprate – non ha ricordi personali del mondo vero se non quel che ha visto in tv o quel si porta dietro da vacanze al villaggetto turistico. Ignora rapporti tra edilizia e ambiente e clima e, di nuovo, memoria. Gusta di questa smemorata, cafona, ridicola bruttezza e se ne bea. E il senso dello spaesamento, dello smemoramento da lobotomia, continua anche negli interni.

Un giorno vidi su Oggi – che di solito sfoglio dal barbiere – che la famigerata Villa La Certosa ha le doppie tende e mantovane – tenetevi forte! – di velluto. Con quel clima? Quella luce? Come in un bordello di lusso in Baviera?! E inoltre, a continuare il lobotomico spaesamento, il Padrone di quella villa (e molto altro) si vantava di aver piantato 2.500, e dico duemilacinquecento, specie di cactus. In Sardegna?! Tra i pini scagliosi e irti, le tamerici salmastre e arse, e i mirti, tanti mirti, divini, io importo cactus? Mi fabbrico un Tropico speedygonzalesco finto come un fondale di polistirolo all’Arena di Verona?! Incongruo – per usare un’immagine gaddiana – quanto – «la regina Vittoria stravaccata su un’ottomana Turca».

Nessuno ha mai pensato di imporre – agli inizi degli anni Sessanta, quando cominciò la devastazione – limiti paesistici, costruire ad almeno un chilometro dalle coste; occultare questi orrori dietro cortine di piante native; o – perché no? – concedere solo permessi nell’interno del paese: han tutti la machina! – corsivo mio, la parola è in lumbard. Perché che altro è quest’edilizia del vuoto storico e mentale se non un’immane massa di spazzatura, e di difficile smaltimento, posata sulle coste più belle e bizzarre del Mediterraneo? Le più rare, perché quel granito rosa scolpito in milioni di forme fantastiche dal vento e dal mare è il pezzo più antico di terra emersa all’alba del mondo. E non c’è più.

06-05-2014 | 16:44