Quanti segreti nel nostro cervello

Prima metà del Novecento. Un giovane ufficiale tedesco, professore di latino e greco, viene ferito alla testa da un’arma da fuoco: il trauma investe il lobo frontale sinistro. Risultato? Non riesce più a parlare in tedesco. Ma è ancora in grado di esprimersi in latino. I medici e gli scienziati sono perplessi. E indagano questa vicenda, che diventa un caso di scuola nella letteratura neuroscientifica.

Il paziente adotta una strategia sbalorditiva: formula interiormente la frase in latino, la traduce in tedesco ed esprime a voce alta la frase in tedesco. Sistema certamente macchinoso, ma genialmente funzionale. Conclusione? La parte danneggiata del cervello, nell’emisfero sinistro, è quella che presiede alla lingua madre e all’astrazione, mentre l’apprendimento del latino attiva altri meccanismi, che stanno nella parte posteriore del cervello e presiedono a un altro tipo di memoria.

Questo aneddoto spiega bene come, ancora dopo millenni di storia dell’umanità, il nostro cervello sia un continente tutto da esplorare. Anche per poter imparare meglio una lingua straniera. Molti, soprattutto tra coloro che hanno frequentato la scuola qualche decennio fa, ricorderanno con perplessità la propria esperienza di studio delle lingue straniere: grammatica, grammatica e grammatica. Ossia regole. Proprio come il latino. Ma, dopo medie e superiori, arrivava puntuale una delusione senza pari: pochi sapevano parlare in inglese o in francese, pur conoscendone magari perfettamente eccezioni o controeccezioni grammaticali! Il paradosso è che quanto più uno ha studiato le "regole", tanto meno  riesce facilmente a parlare, per le mille inibizioni che si pone e per l'incubo dell'errore che gli hanno inculcato.

La scienza, però, evolve e, sia pure faticosamente, evolve anche l’insegnamento delle lingue.  Così, ad esempio, sappiamo che prima ci si immerge in una lingua e se ne apprende l’uso (facendo certo errori, ma senza preoccuparsene, come fanno i bambini) e poi si riflette su di essa, ma anche che fino a nove mesi si sviluppa la gestione dell’apparato fonico. Perciò un bimbo italiano potrebbe adattarsi anche al cinese o al vietnamita, lingue molto diverse, in cui la variazione del tono di voce nella pronuncia di una parola ne cambia completamente il significato. A cinque anni si completa la competenza fonologica. A dieci, quella grammaticale. Poi, nell’adolescenza, la partita si sposta sul lessico, sul vocabolario che ognuno di noi domina.

Ma c’è di più. Recentemente è stata sviluppata la teoria del “linguaggio incarnato”, che contrasta con la visione classica del materiale linguistico ritenuto svincolato dall’apparato sensoriale. Per cui, semplificando, quando udiamo la parola “mano”, sembra attivarsi subito la parte del nostro cervello che presiede al movimento della mano. Insomma, significato ed esperienza appaiono inscindibili nella nostra testa (in tali meccanismi potrebbe essere coinvolto anche il noto sistema dei neuroni specchio). Il linguaggio risulta pertanto una specie di etichetta dell’esperienza umana. Anche qui si aprono dunque nuove frontiere. Perché conoscere e capire il nostro cervello è la precondizione per tutto il resto. Anche per parlare meglio e dominare con più sicurezza le lingue straniere.

 

 

04-01-2015 | 12:08