Quello spostato di Clark

Oggi ricorre l’anniversario della nascita di uno dei leoni del cinema americano, un uomo di fascino ineguagliabile e con una storia personale intensa forse ancor più di quelle interpretate sullo schermo.

Molti associano il suo nome all’indimenticabile Rhett Butler, protagonista in “Via col vento” che francamente se ne infischia, alla fine, delle lacrime di coccodrillo dell’adorabile Rossella.

Clark Gable rappresenta per Hollywood il mito del self made man oltre che del mascalzone irresistibile: di umili origini, diventa attore grazie a una passione fortissima e ad una certa spregiudicatezza anche in amore. Sposò infatti donne molto più anziane , influenti nel mondo dello spettacolo, sino a poi incontrare il grande amore della sua vita, Carole Lombard, quando poté finalmente emanciparsi dalla sua ultima mecenate.

La Lombard morì pochi anni dopo, in un incidente aereo, e la vita di Gable cambiò radicalmente. Decise infatti di arruolarsi e partecipare alla seconda guerra mondiale, con coraggio e riportando onorificenze degne di un vero eroe.

Ma la guerra lo segnò drasticamente. Sul grande schermo il suo sorriso brillava meno e le scritture iniziarono a scarseggiare. Lo spettro dell’alcool se lo divorava mentre Hollywood decideva di dimenticarselo un po’.

Nel 1961 però due teste niente male, una armata di penna e l’altra di cinepresa, decisero di offrirgli un personaggio degno della sua storia.

Arthur Miller e John Houston con “Gli spostati” firmano insieme un piccolo capolavoro d’avanguardia, un western crepuscolare e rivoluzionariamente ecologista, mettendo insieme un cast davvero eccezionale.

Oltre a Gable infatti, abbiamo la protagonista, l’inafferrabile Marylin Monroe e un grande Montgomery Clift.

La magia di questo film è che in ogni istante intravediamo loro, le persone dietro, o meglio, dentro i personaggi, che certo non erano individui comuni. Messi insieme, dopo aver letto le rispettive biografie, non possono lasciare indifferenti e fanno venire una certa nostalgia per quel cinema fatto di storie ma anche di veri divi, spesso tormentati, a volte maledetti, ma autenticamente meravigliosi.

Spostati un po’ tutti, perduti in quello che erano e che mai più saranno, eppure perfetti, commoventi, indimenticabili.

Gable e la Monroe sono al loro ultimo film. Lui morirà alla fine delle riprese, di infarto (molti sostengono che fu il veleno fatto sul set a provocarglielo, veleno causato dai continui ritardi e dalle dimenticanze della Monroe), lei pochi mesi dopo, tutti sappiamo, ahinoi, come. Il cuore di Clift  cedette invece nel 1966, a soli quarantacinque anni, stroncato da una vita di eccessi e profonda solitudine esistenziale.

Nel film la letteratura la fa da padrona, la sceneggiatura è imponente e la fotografia molto originale per l’epoca.

La metafora del fuoco dei cavalli selvaggi in fuga, braccati da Gay (Gable), cow boy in declino, con l’ausilio del maligno Guido (Eli Wallach) e dello straziato Perce (Clift), si dipana chiaramente negli occhi della Monroe.

Lei è Roselyn, “la ragazza più triste che abbia mai visto”, a sentire Guy, che però rende felici tutti e fa nascere i fiori nelle sterpaglie.

Roselyn non accetta la violenza del mondo maschile come unica vera realizzazione dello stesso e lo dimostrerà, aiutata da Perce, liberando i cavalli immobilizzati durante la caccia.

Guy riuscirà a riprenderli, ma solo per dimostrare il suo indomito ruggito da vecchio leone: lui la vede davvero Roselyn e capisce che ha bisogno del suo mondo per resistere al dolore del proprio sino a quel momento.

Donerà quindi ai cavalli la libertà, lasciandoli correre liberi in un paesaggio deserto e magnifico, dove ogni rinascita sembra possibile.

Merito indiscusso del film, oltre , come abbiamo detto, ad offrirci un ensemble attoriale unico e prezioso, è quello di affrontare tematiche importanti e ben poco comuni all’epoca: animalismo, ecologia, diritti delle donne .

Infine, non pare casuale il ruolo assegnato a Clift, in una situazione drammatica a causa della sua omosessualità in un’America ancora ben poco emancipata. Lui è il cow boy che capisce in tempo, grazie a una sconosciuta che gli vuole bene guardandolo negli occhi, che certe cose non fanno per lui, pur essendo capacissimo di farle.

Oltre al grande valore dato alla libertà, questo film si chiude con un cartello immaginario dove potremo leggere  “i veri uomini rifiutano la violenza come mezzo di affermazione e non scappano da se stessi”. Perché l’amore è la risposta.

 

 

01-02-2016 | 16:03