Salvate il soldato Scabin

Magmatico, esistenzialista, irriverente, maudit. Davide Scabin è il cuoco a più alto tasso di carisma del panorama italiano. Un’intelligenza selvaggia e quasi imbarazzante per lo sfortunato interlocutore, messo a confronto con le mosse istantanee di un animale della creazione, sempre lesto nel fare perdere le tracce, perennemente fuori dal campo visivo dei birdwatchers domenicali. Nessun italiano come lui ha gettato sul piatto della cucina mondiale la moneta sonante dell’invenzione ex nihilo, nel momento fatato in cui la grande narrazione della cucina classica si liquefaceva sul fornelletto acceso del progresso. Un mitragliamento di intuizioni spiazzanti, in quanto apolidi nella topografia dei saperi e delle arti, distillato al Rotoval dell’istinto puro e della disobbedienza inveterata.

Perché Davide Scabin è un obiettore di Davide Scabin. Sempre un passo oltre se stesso sullo scacchiere delle tendenze contemporanee. Sanguigno, scanzonato, quasi picaresco nella vitalità di un racconto che di peripezia in peripezia spinge la resipiscenza oltre i confini del genere costituito. La famiglia è umile, l’humus popolare. Dopo la scuola alberghiera a Torino, intrapresa per l’imprinting della trattoria materna, in cui traghettava le uova fra i tavoli durante la prima infanzia (“ma io volevo fare il camionista come mio padre, l’informatico, cioè l’hacker, oppure il ladro, perché progettavo ipotetici furti nei minimi dettagli”), l’irreggimentazione sabauda arriva in due ristoranti d’antan, ‘L Galantom di Torino e il Bontan di San Mauro Torinese, dove inizia a credere pian piano in se stesso. Il patron un giorno gli squaderna davanti l’ultimo numero di Grand Gourmet: “L’hai copiato questo?”. Sotto i suoi occhi le orecchiette con broccoli e foie gras di Gualtiero Marchesi, meticciato in stile nouvelle cuisine fra nobiltà ed energia popolare partorito pari pari dalla sua immaginazione e già in carta. “Allora valgo davvero”, conclude. Ma le grandi maison non entreranno mai nel suo CV: Davide è un cuoco non cuoco: il suo tornello vortica fuori e dentro le cucine, a Lanzo, dove miscela cocktail nel suo fortunato bar, o in discoteca ad animare serate, prima di trasformarsi in agente di prodotti estetici. Una parentesi fortuita che gli inspirerà il packaging a venire.

Nel 1992 grazie all’amico Celestino Aimaro è la volta del leggendario Combal di Almese (dove presto lo affiancano la sorella Barbara e la fidanzata Milena Pozzi), trattoria di cucina piemontese irreprensibile sul tipico, che inizia a riservare menu carbonari alla sparuta clientela gourmet. Compreso il famigerato cyber egg, sorta di raviolo post-human che gioca coll’emozione primordiale di un cibo irriconoscibile, foriero di potenziale pericolo, in realtà un tuorlo al caviale di ispirazione zarista camuffato dal velo della plastica, barthesiano mito d’oggi, la cui crudeltà affonda con un colpo di bisturi fin dentro i precordi. Lo stesso thriller, in fondo, dell’esperimento di molti anni dopo: cocci di bicchieri Riedel rotti sul piatto, che fanno balzare in gola il gusto di tradizionalissimi agnolotti, allo stesso modo in cui i trompe-l’oeil simulavano vetri taglienti dentro la cornice per sfidare il tatto aguzzo dei polpastrelli. E ancora Bulgari, piatto ispirato al sesso orale in cui recupera l’uso del profumo dall’antitradizione futurista del Porcoeccitato (giacché Torino conta sì fra le roccaforti della conservazione gastronomica, ma la sua resilienza ha già ispirato il movimento di Marinetti, che si attovagliava presso il Santopalato). E soprattutto Charlie, rivoluzionaria allegoria della guerra del Vietnam, dove le bare sono ricavate da mezze lattine di Coca Cola. Quasi a rinnovare le provocazioni di Andy Warhol quando proclamava:  “mi è sempre piaciuto lavorare con gli scarti… ho sempre pensato che hanno un grande potenziale di divertimento. È un lavoro di riciclaggio”. Et voilà. Molto più pop dell’etichetta (fuori luogo) del classicissimo Davide Oldani, nel pieno amarcord di una trattoria di paese con le tovaglie a quadri, Davide Scabin inizia i clin d’oeil all’industria alimentare mutuandone loghi, gesti, immaginario, fedele a quel complesso di Clodoveo ben descritto da Roland Barthes a proposito sempre di Pop Art: “Brucia ciò che hai adorato; adora ciò che hai bruciato”. Un’ambiguità consustanziale e feconda fra ortodossia e pulsione iconoclasta, cultura gastronomica e junk food, forse l’unica costante nel vorticare delle giravolte insieme all’edonismo gagliardo e talvolta un po’ sfrontato. Tanto che la fama cresce e nel 2002 lo traghetta a Rivoli, presso il Museo di Arte Contemporanea. Un’incoronazione in piena regola: la ricerca estrema non è più appannaggio di pochi, ma va in pasto a tutti. Sono gli anni ruggenti di una creatività incontenibile, che raccoglie le intuizioni di Almese e le eleva a potenza grazie al contatto anche fisico con le emergenze dell’intelligenza contemporanea. Il packaging ad esempio si affina e si decanta, mette mano al passaporto interdisciplinare per flirtare con il design, poi fa ritorno all’ovile della cucina pura, tralasciando le implicazioni concettuali e mettendosi al servizio del gusto in chiave ergonomica.

Ma il food design resta a tutti gli effetti una creazione scabiniana, sfogo italico della pulsione neobarocca alla dissipazione nell’accezione di Omar Calabrese, che vede la creazione quale frutto non di uno scarto all’interno del sistema, ma di una condizione di instabilità introdotta dall’esterno, analogamente alla teoria scientifica delle strutture dissipative per cui l’apertura genera neghentropia anziché caos. È il primo movimento di avvicinamento a quello stile trans-classico (contrario cioè alla vettorialità della transavanguardia, che esortava a guardare indietro per andare avanti, ma incurvato dalla medesima lateralità), che ben prima del gran ritiro di Ferran Adrià archivierà le lance in resta avanguardiste in favore della ricerca quintessenziale dei gusti primari, fino a giungere a una sorta di grado 0 della cucina, renitente a qualsivoglia sovrastruttura o connotazione posticcia nel biancore immacolato della sua coincidenza con se stessa. Pareti solide, geometrie ortogonali e materiali compatti, né mansarde né terrazze su altri mondi sopra i quali planare. Senza rinunciare a sparare pirotecniche saltuarie, dal kit di gusti primari (reminescenza delle reminescenze) alle pillole di sale, dai ravioli shake allo street food italiano quale viatico verso la definizione di un volgare culinario. Lingua quotidiana, stropicciata, reale, epperò bisognosa della codificazione dantesca di un autore evoluto per staccare i suoi impertinenti, meritatissimi allori.

By Alessandra Meldolesi for The Club

 

 

11-12-2013 | 22:50