Sympathy for the Stones

Rieccoli, in un video di recentissima uscita, i Rolling Stones al concerto di Hyde Park a Londra la scorsa estate. Ormai aquile senza tempo appollaiate sulla vetta dell'Olimpo del nostro evo sentimentale. Se il Rock ha una storia, loro sono meta-storici, sono un mito fuor di metafora. Averli sentiti e visti in un concerto, è degno di un racconto decameroniano in una vicenda personale di questi 50 incredibili anni, un raro punto fermo in un’epoca di indecisioni d’ogni sorta. Il “mito delle origini” non risparmia nessuno. Chi conosce il rock sa che i Rolling sono un valore assoluto di tutto quel che gira attorno al fenomeno, che non suscitano grandi nostalgie per tempi anteriori; è come se ci fossero da sempre, sono pressoché il punto d’inizio della storia del rock nell’epoca del suo potere mediatico. Di questo sono l’archetipo irremovibile. 

Che dire ancora di non già detto della loro immagine? Jagger e Richards restano come duo originario (ma quelli avvicendatisi nel tempo sono perfetti), forgiati di quella loro forma fisica che sembra aver condizionato un paio di generazioni, come fosse loro copyright. I molti settantenni come loro – e oggi anche ottantenni – che li hanno letteralmente venerati da teenagers, che ne sono stati improntati nei gusti, oggi non sembrano capaci di adattarsi al proprio tempo, di appartenere serenamente ad altre epoche che non quella della propria, indimenticata giovinezza. Quanti Big Lebowsky hanno generato il rock, i Rolling? Tantissimi figli delle ultime tre generazioni non accettano – e non accetteranno – di essere vecchi in maniera comune, inseguiranno un chimerico patteggiamento con il tempo. Quasi tre generazioni di persone condividono la stessa cultura “pop”, gli stessi modelli culturali, musicali, i gusti letterari, vestono quasi allo stesso modo. Hanno i medesimi riferimenti culturali e i Rollin Stones sono stati tra i più straordinariamente influenti. La più classica delle band non si atteggia che a se stessa, non ha alter-ego di sorta. Divi inavvicinabili? Come altri dello star-system, probabilmente, ma mai rissosi o arcigni, sprezzanti del mondo dei “comuni mortali”. Emanano, al contrario, un senso di sereno e goduto successo. I riferimenti al demoniaco, alla magia nera, al “lato oscuro” sono ironici e addomesticati. La cosa interessante è, piuttosto, come di questi clichés ormai datati si siano serviti con abilità e leggerezza, e oggi ci scherzino sopra. 

Nei loro 50 anni di musica e autodistruzione – molto ben ponderata, come dimostrano i fatti – si è stratificata una consistente regione di tutto ciò che una miriade di persone oggi ancora ama o ha amato allo spasimo: strofe indimenticabili, i capelli lunghi e folti, le droghe “buone” rispetto “all’immondizia chimica di oggi”, la libertà ostentata e (almeno apparentemente) sciolta da qualsiasi vincolo, le sonorità divenute modelli viventi della musica del proprio tempo, il suono della stessa parola "Rolling Stones", già bella e pregnante come mero flatus vocis; l’ineffabile gergalità del proprio corpo, tanto imitata; la magrezza inattaccabile dagli eventi della tavola e dell'età. Più che anticonformisti, sembrano avere sedotto il conformismo, averlo ridotto a proprio alleato occasionale, travestito, camuffato a piacimento. La bocca con la linguaccia voluttuosa e sfacciata disegnata da Andy Warhol, loro icona principe (nonché creazione geniale), pur stilizza e pantografata, non differisce poi tanto dalla sostanza dei Rolling Stones, la si sente vera quanto loro, più vera del vero, tanto è azzeccata e tanto ne illustra il carattere. È bella la voce di Mick Jagger? Si pensi a mo' di verifica a "Satisfaction", di cui ogni cover non può che risultare cadetta e impacciata, indebitata fino al collo com’è con la vera, a “Jumpin’Jack flash”, a “Brown sugar”. O si pensi a "Gimme shelter" (che sia la più bella canzone mai scritta, la più colta e completa summa di tutto il rock fin’ora conosciuto e forse oltre?), o a “Sympathy for the Devil”, capace di evocare le facce dell’arte africana, (ma quelle delle Desmoiselles d’Avignon dipinte da Picasso) fin dal primo attacco delle percussioni, ed è subito chiaro che è la voce ideale che quella musica chiede. La sola possibile per i Rolling Stones, per la loro vocazione musicale più profonda. L’unica che possa attaccare la prima strofa di "Sympathy", ferma e arrabbiata, ma con la misura consapevole e altera di un nobile molto ricco che fa bene i conti e cura gli investimenti a mente lucida.

E incontro più felice di quello con la chitarra di Keith Richards è difficile da ricordare, con quel suono scuro, denso, carico come un forziere. I Rolling Stones sono stati emblemi dell’impossibile, “macchine desideranti” lanciate alla massima potenza di giri, ricchissimi oltre l'immaginabile, adorati come dei da donne da sogno impossibile, plausibili in ogni situazione, dal divismo al cinismo alla spudorata, impassibile incoscienza. Sono scampati ai clichés del tempo, dai più scontati a quelli più pretenziosi e ideologici. Che contestazione plausibile si sarebbe sentito onestamente di fare (o di far fare ad altri, molto peggio!) al "sistema" chi incassava milioni su milioni da dischi e concerti e viaggiava fin da ragazzo col jet privato? I Rolling Stones fanno i Rolling Stones, la tautologia è veritiera. Non hanno sufficienti e fondate motivazioni per sembrare qualcos'altro, ed essere l’imitazione di se stessi è un loro lusso esclusivo, un gioco privato di cui si son scritti da soli tempi e modalità. 

Chi sono davvero? Nella seconda metà ‘900 non c’è istituzione, entità culturale che non abbia provato le gioie e i dolori della decostruzione. Ma il sospetto è che decostruendo loro ci sia ben poco di nuovo da illustrare. Scandali, eccessi, misteri, sì, ma come tanti altri nella loro posizione di enorme privilegio e isolamento dalle contingenze dell’esistenza. Non c’è tanto da scomporre del loro fenomeno; per dirla con Hegel, “il vero è l’intero”, e fila che è un piacere! Resta un talento costante, uno stile inconfondibile nelle trasformazioni del tempo, l’aver maneggiato, giocato con tutto ciò che avessero voluto, facendo del proprio stile un’arte combinatoria unica, di slancio e tradizione rivisitata. Più dell’autodistruzione ha potuto la capacità di amministrarsi e l’ambizione sociale. Un raro caso di lucida follia (molto ben gestita). È certo auspicabile e credibile che avranno 90 anni tra esattamente 19. Senza dubbio non saranno dei semplici novantenni, ma i “Rolling Stones a 90 anni”, concediamoci questo. Chissà che il loro segreto non sia una maglia di lana robusta che, da “figli della guerra” quali sono, hanno imparato a tenere sempre indosso. Tranne che in concerto, ovviamente.

15-01-2014 | 15:51