Tre buoni quadri e un figlio

Qualche settimana fa sembrava non si potesse (quasi non si dovesse, pena l’esser guardati con sospetto e tacciati di una sorta di tacito collaborazionismo con il nemico peloso a tre gambe) parlar d’altro che non fosse una sorta di nuova coscienza di genere femminile versus gli abusi della cultura maschilista.

Sembra dunque proprio il momento più indicato, in una rubrica demodé e sfacciatamente non necessaria come questa, per parlare di “Paula”, film tedesco del 2016 diretto da Christian Schwochow, che racconta la storia di Paula Becker, artista rivoluzionaria per la sua epoca, pittrice quando anche solo la parola declinata al femminile dava fastidio. Anticonformista, libera, sensuale e tormentata, attratta visceralmente dalla maternità e dall’arte allo stesso tempo, in un conflitto feroce e spietato tanto con la società quanto con se stessa.

“Tre buoni quadri e un figlio”, ecco cosa sarebbe bastato secondo la giovane e talentuosa artista, una delle massime esponenti dell’espressionismo, allieva ideale di Van Gogh e Gauguin, fra le prime a riconoscere il genio di Cézanne, ecco cosa sarebbe stato sufficiente, per essere felice. E ti pare poco, Paula.

Di quadri, alcuni decisamente più che buoni, ne ha lasciati circa settecento. Di figli uno, una bambina, visto che a soli trentun’anni la sua vita ha avuto un tragico arresto proprio a seguito del tanto desiderato parto. Troppo, per Paula e la sua storia sino ad allora.

Fra splendide fotografie di quadri in movimento che si sovappongono a quadri su tela, guidati da note magistralmente orchestrate, questo film offre uno spaccato di storia necessario a chi oggi si riscopre paladino delle donne e dei loro diritti.

Prima della molestia, molto prima dell’avance, c’è stata per secoli la mancanza di possibilità di espressione alla pari delle donne, in tutti i campi e soprattutto nel mondo dell’arte e della ricerca. E probabilmente c’è ancora, se non si vuole rinunciare a un ruolo che per molte donne è parte imprescindibile della propria natura, ovvero la maternità.

Una donna come Paula Becker, intelligente e sensibilissima, sposata a un uomo fondamentalmente buono ma estremamente limitato, pittore anche lui (Otto Modersohn) che l’appoggia finché rimane nel salotto di casa sua, sfida una società che il politicamente corretto lo conosceva ben poco e che non si fa scrupoli nel ritenerla un soggetto da internare a causa della sua aperta dichiarazione di libertà e ricerca di realizzazione artistica nel fervido humus parigino dei primi del ‘900.

Così come Van Gogh qualche decennio prima, anche Paula cerca il cuore della gente e delle cose, dure e pure, da ritrarre senza le concessioni manieristiche e classicheggianti che permeano invece tutta la scuola di Worpswede, della quale suo marito è uno dei massimi esponenti.

A differenza di Vincent però, Paula non solo deve lottare per affermare il fuoco della sua mano allergica ai compromessi, ma anche e soprattutto per rivendicare il proprio diritto ad essere intiera, donna ed artista, madre e puttana.

In una società becera, maschilista e ignorante, quale poteva essere quella della campagna tedesca dei primi novecento (così come un po’ ovunque) è abbastanza spiazzante non accontentarsi di “creare” soltanto in quanto creature predisposte alla gravidanza.

E, seppur dotata di grande forza di volontà e intelligenza, Paula è pur sempre figlia del suo tempo, tormentata, fragile e intrinsecamente impreparata alla vita lontana dal focolare, nonostante questo la asfissi tremendamente e nonostante le ricercate e ripetute fughe.

Al focolare tornerà e ci morirà pure, dopo aver fatto il suo “dovere” di madre, di creatrice infine riconosciuta universalmente in quanto donna che partorisce con dolore (oltre a saper fare ottime minestre).

Tra i personaggi minori che meriterebbero comunque un’analisi a parte (come la scultrice Clara Westhoff), spicca il cameo dedicato all’uomo Ranier Maria Rilke, animo d’artista puro e implacabile che capisce la potenza di Paula e la spinge ad emanciparsi per salvarsi la vita e l’arte.

Così come non si può restare indifferenti davanti alla fotografia della pellicola, perfetta e allo stesso tempo ricca di imprevedibili suggestioni, con odori di ruggine e verdi che bagnano gli occhi, un vero piacere anche per lo spettatore più esigente.

Infine, fra le scene più emblematiche precedenti alla decisione di Paula di spiccare il suo breve volo, c’è quella della tavolata in cui due acquirenti di un quadro di Otto, nonostante le tele di Paula siano alla parete, ci tengono a sottolineare quanto debba essere importante per un pittore avere una moglie che cucina così bene.

Si soffre davvero con Paula a quel punto, si rovescerebbe per il lei la coppa del brodo sulla testa di ognuno dei commensali.

E bisognerebbe ricordare, anche oggi, nel momento in cui si decide di fare qualche battaglia più o meno femminista (femminile suona meglio, comunque … umana, meglio ancora) che una delle violenze più subdole subite dalle donne che vogliono essere libere e creative, da sempre, consiste nel metterle nella condizione di non avere abbastanza terra sotto i piedi, in autonomia, quando riatterrano entusiaste da voli insperati, perché la società incredibilmente ancora non è pronta a non schematizzare, quando si parla di donne. Soprattutto, non è pronta a supportare donne che vogliano sfidare limiti e clichés senza per questo dover rinunciare al loro ruolo di madri, femmine e rivoluzionarie.

O dentro o fuori e se sei fuori ci resti e se sei dentro non esci. Così, all’infinito, da sempre.

Chissà se sentiremo parlare anche di questo, nei prossimi giorni. Altro che quote rosa, servono lettere scarlatte, da portare con orgoglio, femmine e pioniere, guerriere e madri, al centro di un petto vibrante di emozione, ben in vista.

 

 

06-02-2018 | 23:55