Un buffone durato vent'anni

Anni fa ho letto, su Repubblica, i frammenti dai diari tenuti dal Mussolini Benito, durante la breve prigionia, tra Ponza e la Maddalena, seguita all’arresto del 25 luglio del ’43. In un bell’articolo a commento di quei diari, apparso sempre su Repubblica, Lucio Villari, a divisa del proprio dovere di storico, e come raccomandazione ai lettori attuali e prossimi di quel documento, pone una bella frase di Spinoza: Non ridere, nec detestari, sed intelligere. Spinoza è il mio faro morale. Eppure, non sono riuscito a impedirmi di ridere e detestare.

Già il titolo dato a quel triste «blocco per appunti» dal grande predappiese nel suo momento di massima disgrazia: Pensieri pontini e sardi. Solo a un maestro elementare d’allora, con ambizioni a tempo perso da premio Viareggio, poteva venire in mente un titolo di così trita letterarietà. Poi, l’uomo – anzi, l’Uomo – che ne traspare riesce a far apparire eroico e geniale l’Alberto Sordi di Tutti a casa.

Non c’è uno di questi appunti che non susciti in un lettore, non del tutto idiota o in malafede, lo sprezzante commento di «e grazie al cazzo!». Udite: «Il mio sistema è crollato, la mia caduta è definitiva». E poco dopo lo ripete: «Quando un uomo crolla con il suo sistema, la caduta è definitiva» – attenti all’intuizione geniale – «soprattutto se l’uomo ha oltre i 60 anni». Poco oltre, non contento di aver battuto ai punti monsieur de La Palisse, liricizza, coi cascami della pessima letteratura cui era aduso, la medesima trita riflessione: «Il sangue, la voce infallibile del sangue mi dice che il mio astro è tramontato per sempre». C’è tutto l’uomo e la sua miserabile cultura d’accatto – che certo era quella della maggioranza della piccola borghesia italiana – gli altri erano analfabeti al 50 per cento. C’è la «voce del sangue» – che viene dalla retorica ottocentesca, ma rinvia a superstizioni di un contado ignorante fermo alla prima età del bronzo; c’è l’aggettivo sdrucciolo in ibile – gli piace – vano tanto, si pensi al tutto suo «immarcescibile»; c’è il tropo retorico dell’astro che tramonta, rubato a un Napoleone da almanacco popolare.

E infatti, questo è proprio il Napoloni di Chaplin che neanche si difende più a mortadellate. E, con un enorme sospiro di sollievo, si esime da ogni sua responsabilità intuendo, da quel genio che era, una fondamentale legge storica: che le dittature moderne «non possono durare il ventennio». Villari si stupisce che l’ometto non si domandi mai che responsabilità abbia nella guerra dichiarata a nientemeno che Gran Bretagna, Francia, Grecia, Jugoslavia, Stati Uniti e Unione Sovietica. E il tutto con un esercito di latta e cartone. Ma la ragione è chiara. Immaginava tutt’altro futuro per sé.

Lui se ne sarebbe stato lì a Ponza, guardato a vista dai carabinieri per difenderlo dagli altri prigionieri da lui lì confinati. Se ne sarebbe stato lì, seduto al caffè, davanti a un cappuccino, a calcolare la pensione maturata. Come deve aver maledetto il suo socio, quel menagramo dell’Adolfo, quando ha visto l’aereo di Otto Skorzeny atterrare sul Gran Sasso per trascinarlo al suo squallido destino, a Dongo, dentro un cappottaccio tedesco di tre misure più grandi, con un berretto della Wehrmacht a coprirgli la pelata.

 

 

08-09-2014 | 00:42