Un ping-pong a Parigi

Dopo quello che è successo a Parigi tra il 7 a il 9 gennaio, diventa difficile riprendere i nostri percorsi parigini, ignorando gli infausti eventi. Potrei forse raccontarvi dello shock, della sensazione del passante medio improvvisamente immerso in un clima elettrico, tra sirene, ritorni alla calma, la paura quando passi davanti a un possibile obbiettivo (ebraico o istituzionale, una moschea colpita per ritorsione), vera strizza se nel frattempo un qualche giovane incappucciato avanza verso di te oscillando ostentatamente le spalle.

Se tre persone hanno seminato tanto panico, cosa farebbero trenta ben coordinate? Siamo davvero all’inizio se non di una guerra – quelle fanno migliaia di morti –  almeno di una guerriglia civile? Possiamo chiamarla “civile” visto che tutti gli attentatori erano francesi, o bisogna sostituire “civile” con “di civiltà”? Tutte e due?

Ne parlo con Adam, un mio amico di origine tunisina con cui mi trovo ogni tanto a giocare a ping-pong nel giardinetto di Quai de Loire, nel XIX arrondissement, nel Nord Est di Parigi. Oggi la nostra passeggiata si limiterà quindi ai pochi metri quadri attorno al tavolo verde, ormai malmesso, ai piedi della passerella che collega le due sponde di Canal de la Villette.

Nella loro fuga gli autori dell’orrenda strage nella redazione di Charlie Hebdo sono passati a pochi decine di metri dal nostro luogo d’incontro, correndo furiosi lungo l’avenue Jean Jaurès, infilandosi non si sa come nei sempiterni ingorghi di Porte de Pantin; la loro formazione jihadista è avvenuta in questo quartiere, tanto da essere chiamati la cellula delle Buttes de Chaumont, il grande e splendido parco a cinque minuti a piedi da qui.

Adam va per i cinquanta, alto, spalle larghe, non so che faccia di preciso, ma mi pare di aver capito che abbia girato il mondo: Canada, Brasile, Svezia. Come me, Adam è un giocatore atipico nel senso che non ha mai giocato in un club e usa poco il top spin – e questa è cosa di grande interesse.

Ma il lettore si chiederà soprattutto se Adam, oltre che tunisino, sia anche musulmano. Un giorno lo sentii dire: “Non credo in queste sciocchezze”; un altro: “Ho fatto il pellegrinaggio alla Mecca e la sera prego per rispetto alla tradizione dei miei genitori”. Insomma Adam è un tipo insolito, ondivago, inclassificabile, che ha qualcosa del filosofo di strada e dello scienziato da sottoscala. Sono le dieci di domenica mattina.

Allora Adam – gli chiedo mentre cominciamo a scaldare il rovescio – cosa pensi di tutto ciò?

Cosa ne penso, vuol dire se ho delle analisi illuminanti o delle soluzioni geniali?

Se le hai...

Non mi piacciono le conclusioni. Preferisco smontarle, analizzando campi ristretti da diversi punti di vista, possibilmente aiutato da statistiche.

Fai uno sforzo di semplicità per i nostri lettori.

Qualche modesta proposta...

Sono tutto orecchi…

E intanto sposto il palleggio sul dritto. 

La prima cosa, mon cher Filippo, quella su cui persino io nutro pochi dubbi, sarebbe mandare in pensione i boiardi che regnano sull’Europa e innaffiare le nostre periferie con molti soldi liquidi, diffondere lavoro, buoni salari, formazioni professionali e culturali. Sono ottimi calmanti che spingono a vedere con occhio più critico l’idea di partire in Siria a massacrare, stuprare e finire la propria parabola mitragliati alla periferia di Parigi.     

Davvero pensi che sia solo questione di soldi? In fondo il terrorismo non viene da tutti i poveri ma da certi membri di una comunità in particolare...

Cerco un recupero ma la pallina picchia contro la rete (la rete di questi campi esterni è spesso di metallo, pietra o sostanze plastificate) e cade per terra; Adam la raccoglie, la chiude nel palmo della mano, poi nasconde le due mani sotto il tavolo.

Scegli.

Indovino la mano che stringe la pallina e comincio a servire.

Non so se basti, ma senza soldi non si va da nessuna parte. Inutile ciaccolare (Adam toscaneggia un poco) di Education citoyenne, valori e dialoghi di civiltà, se tra il proletariato africano e la classe media esiste un abisso economico, prima che culturale.

Ma ora anche la classe media non se la passa tanto bene.

Vedi supra.

Il sole diventa più caldo, in questo gennaio già talmente tiepido, e io e Adam possiamo toglierci i giacconi. Alle spalle di Adam, sulle sponde del canale, i passanti sono sempre più numerosi; sotto gli alberi, lungo tutto il canale, fiorisconoi giocatori di pétanque (le bocce). Parigi ha ancora una bella vita popolare, molto varia, equesta parte del XIX arrondissement raccoglie persone o famiglie venute, come si usa dire, da tutte le parti del mondo, tra cui una numerosa comunità musulmana e la più grande comunità ebraica di Francia. Eppure, in linea di massima, queste comunità si sfiorano, s’incontrano, si salutano, ma raramente si mescolano; sempre in linea di massima, i bianchi stanno con i bianchi, i cinesi con i cinesi, i neri con i neri, gli ebrei con gli ebrei e persino gli italiani con gli italiani. Se è proprio a questo tavolo che ho conosciuto Adam, è perché, specie in questo quartiere, il ping-pong è uno dei luoghi dove l’incontro tra profili diversi avviene conpiù facilità; con il suo linguaggio fisico, ma che non prevede lo scontro, conil suo codice quasi cavalleresco (qui a Parigi a fine partita i giocatori si avvicinano alla rete, si stringono la mano e pronunciano il rituale: “bienjoué”), il ping-pong è come un anello magicoin cui le identità culturali perdono il loro potere esclusivo, d’esclusione.

D’accordo, Adam, più soldi e riprendiamoci l’Europa. Altro?

Tornare a chiamare la «Festa d’inverno (Fête d’hiver)» semplicemente la Festa di Natale.

Ma tu mi vuoi provocare, Adam, un ateo come me, uno che alla parola valori è colto da pruriti furibondi, che simile proposta fatica pure a trascriverla...

E un po’ incacchiato perforo Adam con la mia specialità,  il rovescio lungolinea.

Calma, calma non sto parlando di un Natale tutto unto dallo spirito divino, che l’Europa, in ogni caso la Francia, sembra aver sorpassato da sola, ma del semplice fatto di chiamare Festa di Natale la Festa di natale, la Fête de Noêl

Continuo a essere perplesso.

Suvvia – prosegue sicuro di sé – qui siamo al delirio, all’eugenetica del vuoto, al sogno ridicolo, se non mostruoso, della neutralità perfetta. È lo stesso ragionamento che porta a mettere Beethoven e Eminem sullo stesso piano perché così nessuno si offende, non sia mai. La festa che si festeggia nelle scuole è la Festa di Natale, solo che «camuffata». Credere che altre culture non possano accettarla è fare di loro degli intolleranti a priori e dei franco-francesi delle persone dalla coscienza molto sporca. Per altro credere che un alberello di Natale offenda più del bombardamento di un drone è segno di una società obnubilata da una qualche forma di dittatura – quella dell’informazione. E qui è lui che pare rinvigorito dalla rabbia e mi butta da un lato all’altro del campo per poi finirmi con una smorzata dall’ effetto retro.

Non te ne dispiacere, Adam, ma io ho l’impressione che tu proponga un petit retour au passé, e il passato, come sai bene, non torna – né i Trenta Gloriosi né il tempo in cui si poteva vivere senza paranoia del “politicamente corretto”. Ma vogliamo parlare di cose più grandi dell’albero di Natale? Dello scenario da guerra mondiale in cui ci troviamo...

Ti ho già detto che preferisco concentrarmi su campi ristretti, altrimenti dal colonialismo alla naturale violenza umana non finiremmo più. Restiamo alla Francia. 

Continua pure.

Non trasmettere più di una partita di calcio a settimana. Vedere questi ragazzini indossare le maglie in acrilico di Messi e Ronaldo nella fasulla speranza di apparire più integrati è di una tristezza rara, una vera crudeltà. 

Adam questa è una proposta paradossale, degna di quella di Jonathan Swift. Allora bisognerebbe anche proibire le sovraesposizioni sonore alla musica in due quarti (specie tramite cuffie), per non parlare dell’informazione, che tra slogan e sminuzzamento della notizia non fa che distruggere il senso degli avvenimenti...

E cosa aspetta il governo a fare tutte queste belle cose ?

Sei forse un reazionario ?

No, mon cher Filippo, un conservatore non classista.

E immagino che ora biasimerai gli iPad a scuola.

Blaterano di averli introdotti per favorire le classi povere, quando le uniche cose che hanno i ragazzi delle banlieue sono macchinette con gli schermi mobili. Le riforme degli ultimi anni, come ha detto il filosofo Jean-Claude Michea, sono state fatte per distruggere la scuola e lasciare tutto lo spazio al nichilismo del capitale, possibilmente quello più cheap. Anche quei terroristi, i fratelli Kouachi in fondo erano cresciuti in questo nichilismo…

 Intanto un gruppo di bambini si assiepa attorno al tavolo. Come in una fotografia di Toscani sono uno giallo, uno bianco, uno rosso Gange e uno marrone sabbie dell’Atlas. Ci guardano con occhi ansiosi di giocare. Chiediamo loro di aspettare la fine della partita e loro si siedono compostamente sul muretto accanto al tavolo.

Capito di cosa stiamo parlando, il ragazzo arabo dice: «Per me se lo sono meritato, hanno offeso la nostra religione». Gli altri annuiscono o non dicono nulla.

Stai zitto, piccola canaglia – gli grida contro Adam – non parlare di cose che non capisci. Su Maometto hanno fatto tre copertine in dieci anni e intanto i tuoi “fratelli” sceicchi del golfo sparano a vista al primo pakistano o algerino che provi a varcare le loro frontiere. Poi, rivolto a me, quasi sottovoce, aggiunge: “Bisogna però capire che in questo minuscolo pianeta ai margini dell’Universo è pieno di persone che credono in Dio e per cui la religione è importante quanto la vita e la libertà, forse di più. In Europa molte di queste persone sono musulmane”.

Quindi ?

Niente. È un dato di fatto.

E una possibile vittoria di Marine Le Pen non ti spaventa ?

Non tanto.

E Adam mi ricorda che il primo provvedimento del socialista Manuel Valls da ministro dell’interno fu di annunciare in televisione l’evacuazione di numerosi campi Rom.

E poi – aggiunge – cosa vuoi che faccia la Marine, deportarci tutti nei paesi d’origine?

Non ti pare possibile ?

Non molto.

Ai bambini che aspettano di giocare si uniscono una madre e un figlio appena adolescente, due ragazzi stile hipster e un signore asiatico con cui ho giocato centinaia di partite, che a settant’anni si muove ancora come un gatto, e di cui non ho mai conosciuto il nome. Siamo in tanti e dopo la nostra partita sarà meglio giocare dei doppi. Forse un giorno io e Adam continueremo il nostro discorso, adesso non è il caso di suscitare dibattiti troppo accesi, meglio concentrarsi sulla partita e lasciarci riprendere dal piacevole susseguirsi della quotidianità.

Allora, mon cher Filippo, quanto siamo ?

Non me lo ricordo.

Nemmeno io.  

 

 

20-01-2015 | 16:18