Uno psicodramma di nome Cioran

A Giugno cade il ventennale della morte del filosofo Emil M. Cioran e forse qualcuno si turberà solo a sentirlo nominare, temendo erroneamente che dietro quel volto slavo così segnato si celino pesantezze accademiche, tipiche dei filosofi. Nessun dubbio riguardo all’implacabile attitudine stoica, intrisa di un nichilismo talmente radicale da tracimare sovente nel solipsismo, eppure quella ragnatela di parole così ben assestate induce ad una lettura intensa ma, formalmente, mai pesante. Non che Cioran sia infatti difficile da leggere – lo scrittore rumeno naturalizzato francese volteggiava ben oltre la complessità specialistica, rappresentandone se mai l’iperbole frantumata in massime fulminanti – ma tant’è, non v’è dubbio che titoli quali L’inconveniente d’essere nati, Squartamento, Sommario di decomposizione o Al culmine della disperazione abbiano contribuito ad alimentarne il mito negativo e la fama, ben meritata, di cinico pessimista, tanto da  trovare lieta accoglienza solo presso confraternite d’inclassificabile genia (Ceronetti e Sgalambro, per restare in Italia). Se volessimo sintetizzarne poi l’intera opera in un colore opteremmo per il grigio acromatico, assai più pertinente del prevedibile anti-pigmento per eccellenza, ovvero il nero, quest’ultimo pur sempre vincolato ad una retorica gotica già troppo pittoresca per le anticonsolatorie invettive cioraniane.

Opera al grigio e psicodramma introspettivo quindi, nonché sadismo complice riguardo alle sorti dell’apprendista lettore, pagina dopo pagina sempre più debilitato, stremato e costretto ad esplorare ogni dubbio esistenziale possibile, servito dallo scrittore con seducente perfidia. Chi coraggiosamente s’inoltra nel testo è destinatario di sentenze implacabili, quale scatola svuotata dov’è scaricato lo sterco raffinato di quella penna perfetta, sobria ed elegante, francese ed europea ma in fondo coerentemente apolide, come da autocertificazione dell’autore medesimo. Scrittura mistica pur senza Dio (eterno referente assente), dalla sintesi spietata che s’appiccica come viscido liquame alle vesti candide dei neofiti, di tutti i contemporanei orfani di causa, degli emancipati da Nietzsche e Schopenhauer, agnostici o filo-buddisti stranamente lieti di farne agiografia in favore di baratro, nella tristezza rassicurante della propria cameretta kafkiana. In fondo i lettori di Cioran sono sopravvissuti ai suoi libri grazie alla glaciale ironia insita più che ad una qualsiasi confutazione o all’illusione di un Oriente domestico irraggiungibile: leggeremo Cioran e poi verrà il suicidio, la fine del mondo o forse solo un raffreddore di stagione, simulazioni sempre da rimandare, destini rocamboleschi sempre da meritare, a patto che qualcun altro sappia riderne, “qu'est-ce que vous voulez que ça me foute!”rammentando i CCCP più nichilisti.

Mastica e sputa, citando pure De Andrè, la vita è tutto un ruminare l’Io, la materia inorganica perfetta per il lavorio debilitante di dentature cariate e fastidio tutt’altro che romantico per gengive infiammate dalla corruzione d’esistere. L’amara medicina servita da Cioran ci porta a rimpiangere tutti i malanni antecedenti dato che la cura si chiama disillusione e l’esito è un covo di vermi. Banalizzando: si stava meglio quando si stava peggio (nell’ingenuità dell’ignoranza, summa scientia nihil scire) e non vi è aggravante che giunga inattesa, sicché “svastica e sputa”, ovvero  il camuffato marchio dell’infamia per il giovane scrittore e la sua precoce appartenenza alla Guardia di Ferro filo-nazista. Abiurò quelle scelte naturalmente, rimarcando l’intima e sincera vicinanza all’archetipo dell’ebreo errante, come meravigliosamente descritto nel capitolo de La tentazione di esistere intitolato Un popolo di solitari. Laconicità di un rinnegamento in tempo utile che gli conferì fascino oscuro presso le portinerie eleganti della Parigi intellettuale post bellica. Insofferente alle partigianerie non suonò quei campanelli però, preferendo coltivare la solitudine o le affinità irrazionali che lo univano all’amico Eugène Ionesco. Così, nella marginalità sociale, il parossismo misantropico prese a governare con ineguagliabile abilità la parola scritta e l’accidia divenne trastullo, il male si fece attitudine onanista, il sarcasmo quale unica via di fuga e l’insonnia come musa traditrice resero l’io un fardello insostenibile, la scusa segreta per invecchiare a discapito dei discepoli. Leggerlo oggi – in tempi di massima efficienza e di produttività lavorativa – serve meravigliosamente a nulla, anzi potrebbe  peggiorare la situazione visto che – triturati dall’ignavia contagiosa di quei libri – finiremmo col trascurare il giardino e ci risulterebbe oltremodo superfluo andare all’autolavaggio per pulire la macchina. Tanto pioverà. Questa, in fondo, è l’astratta utilità tipica delle esperienze formative fondamentali, oppure, come l’effimero piacere d’una sigaretta che nuoce gravemente alla salute, il vizio malsano di una conoscenza incapacitante.

 

 

13-04-2015 | 13:31