Apologia del Gin Tonic
Annebbiati ricordi, probabilmente generazionali, inducono a relegare istintivamente la nomea di certi cocktails nell’abiura; memorie che riportano ai tempi delle mega discoteche sempre affollatissime e di poco onorevoli rese alcoliche nei bagni – o nei parcheggi – delle medesime. Tempi di Gin Tonic, Gin Lemon e Gin Fizz, serviti frettolosamente, in stretti bicchieri di plastica, da truci mestieranti spesso improvvisati. Sovviene puntuale, a ricamare sul clima in questione, una vecchia canzone di Vinicio Capossela intitolata All’una e trentacinque circa, che degenera nel testo in un ebbro elenco apologetico: Chimay, Bacardi, Jamaican rhum, White lady, Beck’s bier, tequila Bum Bum, Dry gin, Charrington, Four Roses bourbon. Giusto così, si dirà: c’è un tempo per fare del nichilismo a spese del fegato, sacrificio che sarà forse utile in futuro, propedeutico ad affinare gusti ed abitudini; la speranza è quella di giungere, con l’età, ad anteporre saggiamente qualità a quantità, giacché nulla è veleno e tutto è veleno, ma è la dose che ne determina la pericolosità, come sosteneva Paracelso, e l’alcol non esula certo dal dotto ragionamento. Resta il fatto che per ottenere auspicabile appagamento dionisiaco in luogo del mal di testa, oltre all’abilità dell’alchimista dietro al bancone, servono ottimi ingredienti e una discreta, impalpabile, dose di poesia. Capita ad uopo infatti che in tempi relativamente recenti abbia preso piede un fenomeno curioso, teso a rivalutare beveraggi finiti nell’oblio o, come nel caso qui trattato del Gin Tonic, nobilmente decaduti.
Già il contesto chimico, farmaceutico, dal quale traggono origine i due principali ingredienti della miscelazione in questione, induce ad una certa perizia nella scelta. Il gin, dall’olandese Jenever, ovvero Ginepro, nasce nel XVII secolo come distillato di bacche, erbe e radici, pare utilizzato per agevolare le funzioni cardiovascolari e per curare le febbri che i soldati contraevano nei paesi esotici. In seguito a scambi mercantili e a vicende belliche si sviluppa come bevanda popolare nel Regno Unito, tanto da diventare presto piaga sociale per l’alcolismo diffuso causato e, contemporaneamente, tratto distintivo del lieto vivere britannico, particolarmente londinese (nota la predilezione in tal senso della Regina Madre). L’acqua tonica, d’altro canto, era in origine impiegata per combattere la malaria grazie alle qualità lenitive del chinino; il resto è storia, tanto da reputare superfluo sottolinearne la fruibilità nell’epoca contemporanea. Uscendo fuori metaforicamente da oscuri laboratori faustiani - bugigattoli ottocenteschi pieni di provette ed alambicchi – per giungere ai giorni nostri, quello che resta è un revival particolarmente riuscito, un’esperienza estetica e sensoriale dove l’alchimia si declina in botanica e la degustazione in posa, giacché per un cocktail elegante non pare superfluo abbigliarsi di conseguenza.
Per offrire qualche punto di riferimento visivo basti notare la cura con la quale sono state vestite le tre bottiglie di gin attualmente più in voga, partendo dal packaging per arrivare all’immaginario di riferimento. La distilleria scozzese Hendrick’s, ad esempio, punta sulla caratteristica bottiglia cilindrica (nella foto), impreziosita da riferimenti aristocratici di tendenza vittoriana. Dal sito web ufficiale, uno dei più belli in assoluto, emergono poi chiari riferimenti alla patafisica; tra mongolfiere, giardini incantati, iconografia da Alice nel paese delle meraviglie e distinti signori coi baffi, il punto di riferimento è quello dell’incisione tardo ottocentesca, con particolare attinenza alla simbologia illuminista. Il gin tedesco Monkey, liquido prezioso contenuto in una piccola boccetta che non stonerebbe sugli scaffali di una vecchia farmacia, si affida alla scimmietta, mascotte pare ritrovata e portata in salvo da un ufficiale inglese in seguito alla distruzione di Berlino nella primavera del ‘45. Il militare, fermamente intenzionato a non perdere le buone abitudini, si diede all’autoproduzione di gin nel cuore della Foresta Nera, tanto da utilizzare ben 47 essenze vegetali presenti in loco. Narra la leggenda che molti anni dopo venne ritrovata una bottiglietta di spesso vetro scuro, con un’etichetta scritta a mano; oltre agli ingredienti segreti c’era impresso il disegno della scimmia portata in salvo dallo zoo di Berlino, da ciò l’attuale emblema del Monkey 47 Schwarzwald, incastonato nel classico francobollo dentellato. La Spagna infine risponde con Mare, un gin particolarmente delicato ed apprezzato dalle signore. Qui lo stilema è moderno, prettamente mediterraneo ed i sapori botanici – timo, basilico, rosmarino – trovano coerente sede in una bottiglia di design dal grande impatto visivo: la sfumatura azzurra, il bianco della scritta serigrafata sulla trasparenza del vetro riportano alla mente il soleggiato clima iberico, una suggestione balneare tuttavia elegante ed esclusiva, da spiaggia privata.
In conclusione, pur nella limitatezza dei tre riferimenti offerti a fronte di una ampia scelta di nuove o rinnovate produzioni, qualche consiglio pratico: la scelta del bicchiere Tumbler risulta la più idonea per un eccellente Gin Tonic, ben raffreddato e colmo di ghiaccio purissimo, ovviamente. Cetriolo e basilico, rispettivamente per Hendrick’s e Mare sono guarnizioni in grado di rafforzare le essenze specifiche, sicché l’aggiunta può essere incoraggiata senza timore. Caso a parte il Monkey, refrattario ad abbinamenti estrosi. Per quanto riguarda la scelta dell’acqua tonica nulla dovrà essere lasciato al caso: Fever Tree, Fentimas, Thomas Henry o l’italiana J. Gasco – tra le altre – sapranno rendere brillante e cristallino il cocktail, sfumandone delicatamente la carica alcolica per un piacere da intenditori.