Cappuccetto Rosso deve morire /3

I video che il Direttore del Villaggio procurò loro erano come i tasselli di un unico immenso affresco su cui si potevano scorgere i gregari di una setta esclusiva e trasversale che capava i propri adepti nel tegame del bisogno.

Questi adepti sono persone d’infinita tristezza: parodie di esseri umani prive di ogni senso della realtà. La spettacolarizzazione di ogni cosa, le promesse più scellerate delle famigerate Risorse Umane, l’idiozia e l’ineleganza di ogni contesto professionale li hanno mangiati da dentro, lasciando solo un carapace pallido e fragile. Rosi e devastati dalla socialità spinta a speculazione socio-economica, medici e manager dell’industria farmaceutica si erano radunati nel Villaggio: centocinquanta fra polli e faine rilasciati in libertà in un unico recinto.

I medici hanno una caratteristica: alcuni sono più medici e altri sono più pr. È una caratteristica insita nella natura stessa della professione, così in bilico fra arte e scienza, fra guizzo creativo ed estro scientifico, fra contatto umano e distacco anatomico. Alcuni sviluppano più la vena scientifica e altri la guittezza. In entrambi i casi è lo squilibrio a essere pericoloso. I medici troppo scientifici sono freddi e scostanti, pericolosamente ambiziosi e spesso arroganti; quelli troppo artisti sono quasi sempre dei cialtroni col camice, inaffidabili e fantomatici.

Quando la scienza e l’arte si uniscono per vivere in equilibrio, invece, il risultato è quello di avere un medico capace che con l’arte della parola e la gentilezza annienta il distacco e consente al paziente di sentirsi considerato un uomo e non un caso clinico o al peggio un numero. Questo nei casi migliori. Parliamo del luminare umano, geniale e professionale.

All’opposto, con troppa arte e poca scienza, sbocciano i pr intrallazzatori e viscidi. La loro genealogia è abbastanza semplice da tracciare: quando vivono in contesti angusti come le città di provincia o in policlinici feudalizzati, i medici poco talentuosi e più arrampicatori si trasformano in lacchè di politici e dirigenti d’azienda per il proprio tornaconto.

Ne consegue che, quando le industrie farmaceutiche decidono di organizzare congressi-macchietta in riva al mare a giugno per rabbonire i cari dottori, si può assistere a un impagabile spettacolo antropologico: gli esemplari più bravi a discutere fra loro della mediocrità dei contributi del congresso e i pr a saggiare e consolidare la loro maglia di contatti attraverso arti più o meno sottili e meccanismi che nulla hanno da invidiare al regno animale.

I manager delle aziende farmaceutiche, invece, agivano in quel contesto con ammirevole discrezione, in ossequio alla legge del low profile, o con un ancor più ammirevole meditato esibizionismo. Essere manager non è un mestiere che si impara a scuola né una propensione con cui si nasce. Manager si diventa. Qualcuno potrebbe addirittura ipotizzare che lo si diventi in assenza di alternative socialmente plausibili: non sai fare niente di preciso e allora gestisci ciò che fanno gli altri. In realtà, se tutti fanno e nessuno ha la visione d’insieme, si può rischiare di sbattere contro un muro. Così si è convulsamente piombati nell’epoca dei grandi manager, degli stipendi stellari e delle responsabilità quasi nulle. In fin dei conti, se tutto va male, si può sempre contare su una nuova opportunità. C’è sempre qualche azienda che ha lautamente prepensionato il suo dirigente e ne cerca uno nuovo di zecca, allora si parte con un nuovo giro di giostra come se niente fosse.

Non è una questione di settore, nulla contro medici o manager dell’industria farmaceutica, è solo una metafora di un vasto mondo fatto per lo più di gatti e di volpi. Con l’aggravante che gatti e volpi hanno addirittura imparato a scambiarsi di ruolo e a giocare a nascondino come transformers sbandati. Ma la barca, incurante, va.

A qualunque osservatore esterno, quello spettacolo sarebbe parso una riproduzione fedele del più sincero desiderio di accomodamento e sopraffazione, uno spettacolo che faceva pensare se non raggelare.

L’arrivo di tutti gl’invitati previsti era stato programmato per la sera di venerdì dodici giugno, cosicché il congresso potesse cominciare entro il sabato mattina e protrarsi sino a martedì mattina. Puntualmente, il giovedì sera, chi era potuto partire in anticipo si era già stabilito al Villaggio e già beneficiava del più bel mare di Sardegna. Gli altri, invece, erano giunti il giorno dopo e anche loro avevano colto al volo i primi raggi di sole incontrati.

La sera di venerdì si era arrivati alla totalità delle presenze. Non c’erano state defezioni: nessuno aveva avuto voglia di perdersi una bella vacanza sulla costa meridionale della Sardegna. In occasione dell’arrivo degli ospiti, la direzione aveva organizzato nell’anfiteatro uno spettacolo con pretese folkloristiche e tutti vi avevano partecipato. Si trattava di una poco convincente esibizione di aspro cantu a tenòres e mamuthones rumorosi. A molti era venuto mal di testa, ma nessuno se n’era andato perché lo show era comunque dotato di una carica magnetica notevole capace di tenere tutti quei continentali inchiodati alle loro sedioline di plastica arancione. Una bruma dorata era stata rigurgitata dagli sfiatatoi del gas dietro i tendaggi del palco, odorava di talco e sembrava una piovra morbida che avvolgeva le prime file. Alcuni si erano tappati il naso, infastiditi da un’allergia alla polvere, ma non c’erano stati starnuti: o almeno non era sembrato nel tramestio infuriato dei campanacci. Quando poi, alla conclusione dello spettacolo, tutti si erano ritirati al bar con la testa intronata, a qualcuno era venuto il sospetto che quell’esibizione chiassosa fosse stata montata al solo scopo di aumentare il consumo di bevande: quando la testa inizia a fare male e nelle camere fa troppo caldo, l’unico rimedio sono legioni di bicchieri di cocktail in un patio fresco e silenzioso. Se c’erano per di più dei camerieri solerti come psicopompi ad accontentare tutti, non rimaneva altro da fare che lasciarsi accontentare, cullati dal vento e dallo sciabordio del mare e illanguiditi dai luccichii della luna, che giocava col suo specchietto a infarlocchire le allodole sotto di sé.

Il Commissario e l’Ispettore esaminarono i video. Con occhio allenato ed esperto, mandando le registrazioni avanti velocemente, poterono accertare entro l’ora di pranzo che solo sette delle persone presenti (o, almeno, di quelle che sapevano essere presenti) nel Villaggio si erano assentate dalla platea dell’anfiteatro al momento dello spettacolo e una era Lagri stesso.

Il Commissario, che fino a quel momento si era detto che – per quanto sui generis – non c’erano elementi per non trattarlo come una fatalità, non riusciva a distogliere la propria mente da un’ipotesi un po’ surreale e romanzesca: che qualcuno dei medici, servendosi delle sue conoscenze, avesse potuto avvelenare la vittima facendolo passare per un suicidio o che qualcuno dei manager, più calcolatore e abile degli altri, avesse potuto uccidere e scappare facendo in modo tale da far sembrare la scena del crimine una perfetta “camera chiusa”.

Fino al momento dell’autopsia, comunque, avrebbe potuto tranquillamente andare in giro a fare qualche domanda e interrogare col dovuto tatto (e una consigliabile dose di discrezione) i sei individui che all’ora del fatto, a giudicare dall’esame dei nastri, non avevano un alibi.

 

 

26-04-2015 | 10:11