Contro il politicamente corretto

Si racconta che Marcel Duchamp ebbe scherzosamente a definire i garzoni in servizio negli ascensori dei grandi alberghi newyorkesi come “aviateurs d’intérieur”, cioè aviatori d’interni. Probabilmente, se avesse immaginato quale vaso di Pandora linguistico, e quindi ideologico, il suo motto di spirito stesse inconsapevolmente socchiudendo, si sarebbe ben guardato dal pronunciarlo.

Quasi cinquant’anni dopo la morte di Rose Sélavy (1968), il nostro vecchio mondo di parole è ormai colonizzato da un’orda di orribili locuzioni che impongono con prepotenza tutta l’invadente ipocrisia del “politicamente corretto”. Tra spazzini, diventati “operatori ecologici”, e persone afflitte da crudeli menomazioni che un’ostentata compassione trasforma in “diversamente abili”, il discorso è diventato un terreno minato, nel quale ogni passo falso può costare il pubblico ludibrio e la condanna alla gogna. Perché, purtroppo, la lingua deve sottostare alla censura delle sorridenti truppe d’occupazione che, senza rimorsi estetici, chiamano “ministra” un ministro di sesso femminile.  (È risaputo che ogni forma di fascismo, non appena preso il potere, si affretta a promulgare normative lessicali – vedasi Mussolini e la sua anglofobia – e cerca di fare della parola uno strumento, possibilmente brutto, dell’obbedienza morale e politica).

Ma, i nuovi squadristi dal volto umano, non si sono accontentati solo di creare e prescrivere l’idioma d’ordinanza, bensì hanno voluto ampliare i confini  dell’oppressione al campo delle immagini. Così, come nel passato, anche il nuovo regime coltiva con grandi mostre e infinite kermesse un’arte compiacente, concepita quale forma mediata di propaganda e manifestazione visibile della sottomissione al dittatore. E, una volta ancora, assistiamo al fiorire di una generazione di artisti, curatori e collezionisti massimamente servili, ed altrettanto asserviti al pensiero dominante, anche se oggi il dittatore non è più una persona fisica.   

Ai giorni nostri, infatti, ciò che esercita il reale potere di opprimere è una dottrina impersonale e versatile, diffusa e transnazionale, che ha certo i suoi protagonisti, ma che comunque emana in modo uniforme dall’intero tessuto sociale, dall’alto al basso del mondo occidentale, dagli Stati Uniti alla vecchia Europa. Un pensiero ipocrita, fondato sull’illusoria conciliazione di opposti inconciliabili. Moralista seppur arrendevole, ecologista anche se affamato di sviluppo, egualitario e tuttavia plutocratico, generoso ma calcolatore, pacifista benché totalitario, terzomondista e colonizzatore, moderato fino all’eccesso, tollerante fino all’intolleranza. E, sopra e prima di tutto, ispirato al valore tanto supremo quanto fondamentale della conformità. Chiunque osi deviare dal messaggio ufficiale di fittizio amore per la differenza (affermando così la propria differenza), è considerato come un reietto. Chiunque si dimostri intollerante, non sarà tollerato.    

Il “politicamente corretto” è in realtà il riflesso ideale, cioè l’immagine rovesciata, di quel mostro senza testa che tutto produce e tutto mangia, il consumismo giunto all’apice delle sue possibilità. E come tale, tende subdolamente a recuperare tutti e ognuno per il grande sabba del Mercato. Più questo si fa esclusivo e discriminatorio, più il discorso diventa inclusivo e omogeneizzante, promuovendo un modello morale ed estetico che permette a ciascuno di partecipare al ballo in maschera e, in cambio della rinuncia alla propria identità autentica, gli fornisce il travestimento (l’uniforme) grazie al quale accedere al sogno dell’estasi materiale. È così che intere moltitudini si sono assuefatte alla propaganda di leader pacifisti che comprano e vendono armi per miliardi di dollari o alle litanie piagnucolose di famosi artisti che si ribellano alla fame nel mondo, mentre fanno colazione al Waldorf Astoria. A questo proposito vale la pena di ricordare un passaggio della “Società dello spettacolo” di Guy Debord: “I personaggi ammirevoli in cui il sistema si personifica sono ben noti per non essere ciò che sono: sono divenuti grandi uomini scendendo al di sotto della realtà della minima vita individuale, e tutti lo sanno”.

Tutti lo sanno, ma pochi lo dicono. E, tra gli artisti, pochissimi. Se non quelli che si distinguono per il loro silenzio e la loro assenza dall’agitazione mondana intorno ai temi obbligatori del “politicamente  corretto”. Quelli che non installano montagne di robaccia contro lo scioglimento dei ghiacciai, non fanno sfilare plotoni di bellissime modelle contro gli eccidi in Darfour, non scarabocchiano istericamente tele gigantesche contro il sessismo e non invadono i musei con tonnellate di masserizie artigianali destinate a denunciare presunte discriminazioni razziali. Certo, non perché siano favorevoli all’ingiustizia, ma solo perché non hanno ceduto alla facilità o alla lusinga mercantile e coltivano con pazienza, pudore e orgoglio quello che Voltaire chiamava “il proprio giardino”.

Come reagire di fronte ad una tale, desolante situazione?

“Tornate all’antico, sarà un progresso” scrisse Giuseppe Verdi, uno che di censura e d’insurrezione se ne intendeva.  Ma cosa può concretamente significare un ritorno all’antico come modo per resistere all’attuale tirannia dei “corretti”?

Innanzitutto, e senza l’ombra di un dubbio, rifiutare i diktat linguistici che sono coercizioni del pensiero. Chiamare gatto un gatto e non accettare l’obbligo di chiamarlo “diversamente leone”.

La lingua dà forma alle idee. Pensare significa costruire un linguaggio e, con esso, l’identità della propria persona. Quindi, difendere la propria privatissima lingua, le sue radici storiche, le sue particolarità dialettali, le sue invenzioni letterarie e perfino il suo lessico famigliare, significa affermare la propria libertà individuale contro il tentativo di dissolverla nella sudditanza di una massa anonima. Cioè senza nome. Difendere con tutte le forze i nomi contro le locuzioni, i dialetti contro l’italiota delle televisioni, il liceo classico contro la volontà di farne un obitorio per lingue morte, i romanzi di Gadda contro i raccontini di Fabio Volo (volantini).

Poi, rivolgersi all’arte per chiederle di svolgere quello che è sempre stato il suo compito: rendere visibile l’invisibile e trascendere il presente per dare forma all’avvenire, senza complicità con i gerarchi, senza concessioni ai loro tesorieri.

Non sarà un caso se Goya, nonostante fosse il primo pittore del re di Spagna, non riuscì a vendere più di ventisette esemplari dei Capricci, mentre Jeff Koons, sedicente critico della società dei consumi, oggi smercia tutta la sua chincaglieria da bazar per milioni di dollari. Uno era un uomo libero e un artista illuminato, con una miracolosa capacità d’anticipazione sul proprio tempo, l’altro è un meschino cantore del presente, ipocrita, cortigiano e affarista.

Il progresso consiste proprio nel conoscere e ammirare l’opera antica dell’uno, come opera di culto ancora ricca d’avvenire, e nel tralasciare i soprammobili contemporanei dell’altro, che a stento avranno un passato e sono solo trascurabili cascami di cultura.

Quindi, evitare meticolosamente di cadere nelle trappole dell’industria culturale, a cominciare dalla distinzione categorica tra antico e contemporaneo, che organizza la diffusione di massa e la conseguente fruizione “turistica” delle opere d’arte. Ricordando ancora una volta un pensiero di Guy Debord : “Sottoprodotto della circolazione delle merci, la circolazione umana considerata come un consumo, il turismo, si riduce fondamentalmente alla facoltà di andare a vedere ciò che è diventato banale”.

Ed in fine,  ma da fare prima di ogni altra cosa, bisogna prendere il coraggio a quattro mani come fece Cambronne a Waterloo e, consapevoli del rischio che si corre di fronte allo strapotere delle milizie politicamente corrette, dir loro un bel “Merda” sulla faccia.

 

 

30-12-2015 | 18:24