I dolori del giovane Basquiat
Come suggerisce Julian Schnabel nel suo bel film sulla vita dell’artista, il fenomeno Jean-Michel Basquiat è nato dal complesso di Van Gogh. In effetti, per riscattare un secolo di rimpianti e sensi di colpa, alla fine degli anni ‘70 qualunque gallerista di New York avrebbe volentieri regalato l’anima al Diavolo pur di scovare un genio nascente che rischiasse di essere trascurato dal mercato.
Ecco perché, mentre downtown si tentava di imporre con metodo un surrogato pacchiano della Pop Art come il Neo-pop dell’impomatato Jeff Koons, uptown, sui muri scalcinati di Spanish Harlem, si dava famelicamente la caccia alla pittura fresca. Non tanto nel senso della vernice, quanto in quello di una forma figurativa di espressione pittorica che fosse diametralmente opposta sia all’Espressionismo astratto di Pollock che al Minimalismo geometrico di Albers, entrambi ormai ampiamente digeriti dal delicato stomaco del collezionismo. Così, anche a costo di forzare un poco la mano al destino e snaturare una spontanea manifestazione di malessere giovanile, che di geniale aveva poco o niente, i quadri di un ignoto ventenne furono presentati quale grande arte sulla scena sfavillante di Mercer Street.
Senza dubbio il new product development è sempre stata un’eccellenza americana, ma nel caso di Basquiat si trattò di un vero e proprio capolavoro di marketing. Per il quale si mobilitarono i titani dell’industria culturale, da Andy Warhol a Bruno Bishofberger, da Tony Shafrazi a Arthur Danto. Graffitismo prima, Neo-espressionismo poi, furono le etichette concepite con sapienza per dare dignità estetica a quelli che, in un mondo meno intossicato dagli allucinogeni della propaganda cultural-commerciale, si sarebbero semplicemente considerati come degli scarabocchi.
Il Guggenheim di Bilbao, in collaborazione con l’Art Gallery of Ontario, dedica in questi mesi una retrospettiva all’artista, prematuramente scomparso a soli 27 anni, nella quale, a cura di Dieter Buchhart, vengono presentate circa cento opere, raggruppate per temi in nove sezioni, sotto il titolo generale Now’s the time.
E verrebbe da sospettare che questo titolo sia solo un (cinico) riferimento alle recenti, iperboliche quotazioni raggiunte dalle tele di Basquiat, perché, visitando la mostra, si ha l’impressione che ancora una volta, a quasi trent’anni dalla morte, il tam-tam rullato intorno ai suoi quadri risulti molto più significativo delle figure che campeggiano al loro interno.
In fin dei conti, nei sette anni di durata della sua brevissima carriera, quel povero ragazzo di Brooklyn non fece altro che tenere il diario ingenuamente illustrato di una vita di strada, piena di spacciatori, d’eroina, di junks e di storie ordinarie della New York meno tirata a lucido. Croquis, sketches, schizzi. Ai quali le grandi dimensioni attribuiscono talvolta un’indiscutibile potenza di impatto visivo. Dai quali sporadicamente traspare una vena malinconica non priva di poesia . Nei quali si può anche leggere una mitologia privata e infantile che ha occasionalmente accenti davvero toccanti. Certo, un universo creativo senza dubbio abitato da un sentimento sincero, che è assolutamente altro rispetto all’astuto listino dei prodotti impacchettati dalla ditta Koons di Wall Street.
Ma, tra l’apprezzare la sensibilità di un giovane ferito dalle asperità dell’esistenza ed il fatto di considerarla come una delle espressioni maggiori della pittura del ‘900 ci passa un mondo. Ed è un mondo costruito dalle forzature dei critici e dalle trovate pubblicitarie dei mercanti. Quali la presunta paternità dell’opera, da sempre attribuita a Dubuffet e a Twombly, solamente in ragione di una mera contiguità formale. O il costante accostamento a figure leggendarie di “maledetti” della musica afroamericana, come se ritrarre Charlie Parker fosse stato sufficiente per assorbirne il talento e il genio innovativo. O, ancora, la diffusione insistita dell’immagine di un bel giovanotto di colore che, sotto le sembianze del pugile, risolleva con le sue vittorie le sorti di una razza oppressa.
Appare chiaro che il senso del caso Basquiat non sia da cercarsi in un campo puramente estetico. La sua parabola ha coinciso temporalmente con una mutazione dello sguardo portato sull’arte dalla critica e, di conseguenza, dalle istituzioni museali, che lo hanno trasferito poi ai collezionisti ed al grande pubblico. Uno sguardo che dall’estetica è progressivamente scivolato verso la sociologia, trasformando definitivamente l’opera d’arte da oggetto di culto a testimonianza di cultura. Così, i musei e le gallerie d’arte contemporanea, convertiti in accoglienti showrooms di campioni antropologici, sono diventati mete turistiche di massa e centri di aggregazione sociale per popolazioni benestanti. Hanno allargato a dismisura la platea dei consumatori di quadri, hanno provocato un aumento esponenziale dei prezzi ed hanno svilito in modo inversamente proporzionale il tenore delle opere esposte.
In questo contesto, una bella gita guidata da Basquiat tra Harlem ed il Bronx, passando dall’Apollo Theatre senza l’obbligo di comprare il biglietto, non sarà stata proprio la scoperta del nuovo Van Gogh, ma rappresentava un boccone troppo prelibato perché il branco delle agenzie di turismo-collezionismo non se lo divorasse. E ovviamente il banchetto continua con maggiore entusiasmo anche ai giorni nostri, giorni in cui gli USA finiscono di saldare il proprio debito con gli Africani attraverso il secondo mandato di un presidente nero, nonostante la brutale opposizione di qualche coglione con la divisa da poliziotto.
E’ così che, fino al 27 settembre, al Guggenheim di Bilbao, testa di ponte della sempiterna avanzata americana in Europa, si possono ammirare contemporaneamente le due facce della medaglia ricordo di New York. Sull’una, la chincaglieria patinata della downtown ricca e bianca di Koons e, sull’altra, i pasticci maldestri della povera Harlem nera di Basquiat. Le due facce dell’Amerika. Viva l’Amerika.