La vera storia del ragazzo selvaggio
L’educazione è tutto per l’uomo. E l’uomo – Aristotele docet – è un animale sociale: non può vivere senza i suoi simili. Ma è paragonabile anche a un cucciolo. Un cucciolo di qualsiasi altra specie vivente, che può crescere solo se chi lo ha generato se ne prende cura. Altrimenti, non crescerà davvero. Mai. Resterà per sempre quel cucciolo che un giorno ha smarrito la strada dei suoi simili. E non l’ha più saputa cercare.
Corre l’anno 1799: è l’anno nel quale, tra l’altro, Napoleone, sbarcato in Egitto, scopre, grazie a un capitano del suo esercito, la stele di Rosetta.
Non siamo nel magico mondo del mito e Venerdì non c’entra assolutamente nulla. Lui si chiama Victor. Ma non è consapevole di avere questo nome. Anzi non ha mai avuto il privilegio di un nome. Vive selvaggio. Da sempre. Attraversa da anni le campagne dell’Aveyron. Perché è stato abbandonato da piccolo. Chissà dove e chissà quando. Emette versi strani, più simili a quelli delle fiere che alla voce dell’uomo. Un giorno viene catturato: è alto molto meno di un metro e mezzo, ringhia e morde. E subito scappa: i serpenti della foresta gli sembrano compagni più affidabili dell’uomo. Poi lo catturano ancora e questa volta fa l’incontro che gli cambierà la vita: quello con il dottor Itard, seguace di Ippocrate.
Il dottore gli attribuisce un nome: finalmente. Un atto di potere, quasi biblico, si direbbe. Il nome è identità. Il nome è il lasciapassare verso il mondo degli uomini, che a Victor però sembra un esercito ostile. Il dottore comincia a dedicarsi alla sua educazione. Senza risparmiare energie. Interesse scientifico o filantropia? Non si sa e Itard, la cui figura è stata a lungo discussa, non ci aiuta a capirlo fino in fondo. Vuole farlo parlare, ma non ci riuscirà mai: il ragazzo ha dodici anni ed è troppo tardi. Il tempo non è un fattore indifferente nella vita. Allora il dottore lo inserisce nella società. Cerca di fargli riacquisire quell’umanità che gli era stata sempre negata. E ne registra i progressi. Vuole insegnargli la giustizia: e così lo punisce senza troppi scrupoli. Lo isola dagli altri ragazzi: forse per lui è solo un caso da laboratorio. Chissà. Il ragazzo cerca anche di fuggire, perché questa non è una storia da romanzo, ma una verità. Dura come tutte le verità profonde della condizione umana. Ma ecco l’epifania: l’umanità alla fine si rivela a una donna, Madame Guerin, la governante di Itard. Il ragazzo coglie il suo amore (è lei forse la madre che non ha mai avuto?). Grida per la gioia. Forse vuole esprimere concetti, che, per quanto intuibili, comunque restano incomprensibili. Le stringe le mani. E alla fine l’abbraccia. Ora sì, davvero, la sua umanità trova compimento. Anche senza quelle parole che non pronuncerà né comprenderà mai.
Dai tempi della scoperta dell’America, abbiamo sempre coltivato il mito del buon (o cattivo) selvaggio. Un mito, niente di più. Fino a quando non si materializzò Victor, che mai avrebbe immaginato di poter ispirare, un giorno, “Il ragazzo selvaggio”, uno dei capolavori del cinema francese – e mondiale – targato Truffaut. E nemmeno il dottor Itard probabilmente l’avrebbe immaginato.