Le figure straziate di Lisetta
Lisetta Carmi, nata a Genova nel 1924, è nota internazionalmente come fotografa, dettaglio abbastanza importante, nell’insieme delle vicende che la riguardano. In realtà, l’intera sua vita può essere considerata come una raccolta di esperienze straordinarie, fatta di quei “viaggi al termine della notte” che sono purissima distillazione novecentesca. Sarà stato per via delle origini ebraiche, che le resero spontaneamente facile errare per il mondo, cercando tra una cosa e l’altra di comprenderlo, soprattutto nelle cause perse; sarà per la formazione da musicista – pianoforte, le note mutantesi in visioni, e le visioni in fotogrammi – che negli anni giovanili le permise di coniugare sensibilità a disciplina; sarà stata forse quell’indole ribelle, connaturata, a facilitarle istintivamente la ricerca di un senso, nell’ormai logora parola Verità. Espulsa dalla scuola a causa delle leggi razziali, Lisetta l’insofferente prese coraggiosamente a trasgredire la regola borghese, trovandoci di bello, nel frattempo, tutto il piacere della libertà. Non però come funziona oggi Signori, che di libero c’è solo il tedio di sopportarci a vicenda, in siparietti autoreferenziali, guazzabugli auto-idolatri o cosiddette facilonerie selfie.
Anarchica più che comunista, cercò, in quei vent’anni di foto, di conoscere il prossimo, consapevole di poter fare a meno di tutto, ma non dello sguardo curioso rivolto all’altro. Difatti viaggiò molto, sovente i luoghi di conflitto. Ha raccontato così Afghanistan, Irlanda del Nord, Israele, le Americhe e l’India, come l’Italia “minore”, quella dei tabarri nell’inverno padano, quella delle sedie e dei vecchi baffuti in Sicilia, o l’amato porto di Genova. Nelle foto della Carmi, siano quelle teatrali dei travestiti nei loro ghetti luccicanti o quelle rubate all’ombra vivente di Ezra Pound, c’è una specialissima trascendenza – berniniana? – che riesce miracolosamente a far combaciare attimo con testimonianza debordante, squallore con beatitudine, miseria con eleganza. Vittima con carnefice, negligenza e sperpero. Emblematica la vicenda riguardante l’autore de I cantos, nel 1966 per lo più dimenticato dal mondo, spettinato in poveri stracci, reietto monaco della parola, mestamente degente a Rapallo. Giunta alla modesta casupola, Lisetta bussò alla porta, ma da dentro solo tombale silenzio. Presente quella certezza di disabitato? Quell’andiamocene? La via è chiusa. Quando, già scoraggiata e di spalle, sente il cigolio della porta aprirsi, vede una allampanata figura scorgersi, è proprio la stralunata fisionomia del Poeta. Ossa alte, pece d’assenza e capigliatura elettrica, sguardo perso. Ciò che ne esce è tutta meraviglia: la bellezza pazza della senilità, un arcaico labirinto di rughe, ma altresì la premonitrice capacità di creare icone diverse, tutt’altro che vincenti e patinate, per la vuota modernità a venire.
Sconfitti ma non arresi, disprezzati forse a salotto, esclusi ma orgogliosi, braccati eppure rigonfi di vita, i soggetti immortalati da Lisetta Carmi raccontano tutto il fascino disturbante delle vite emarginate, ribelli, sincere perché sofferenti - quel Walk on the wild side cantato da Lou Reed - molto prima che queste diventassero retorica pallina sul tavolo da pingpong dei comizianti, trastullo dei nuovi bigotti pronti a segnalare tutto quello che non va, appellandosi allo statuto, uno qualsiasi. Si fotta la legge, come saggiamente consigliava quell’altro genovese dalle braghe poco bianche, l’acclamato De André. La poetica di quelle foto, sembra dire: quello che non va è la vita, quello che non va è lo sguardo idiota, da delatore non immortalato, l’ignoranza che si porta appresso tracotante colui che giudica, quel vincere facile da rammollito, caporalesco, ottuso. Quello che non va è il non correre rischi, la pantofola quando latita il coraggio nel posare il piede nudo sulla calda o fredda terra. Fallo! Provaci a vivere, senza paraculi, in questo mondo aspro. Ecco quindi dischiudersi, nel bianco e nero della Carmi, l’enclave espressionista di matrone col cazzo sotto le gonne, uomini vestiti da donna, travestiti di notte malinconiche, figure straziate d’esistenza, maschere dolenti che si portano appresso il fardello della Tragedia, ben più d’altre. Dovendo pur ridere. Dimmi: sei tu il colpevole, cliente? O forse sei innocente perché hai trovato nel “diverso” il capro espiatorio? La verità nella vita delle persone, ecco cos’è una foto con un senso. Gli occhi, se hanno fame o sete, se bramano una mano o due monete, se riluttanti finiscono per guardarsi dentro, prima di morire o dare alla vita.
Che sarà mai una foto poi, se non morbosità? Togliere un pezzo di vita dal suo presepio, per farne semente di verità o boccale di menzogna. Tutti fotografi oggidì, è acclarato, ma non con quelle poche pretese di catturare attimi speciali ad uso passatempo o testimonianza, bensì incaponitisi nel voler conferire blasone artistico, universale pregnanza, al proprio ombelico/obbiettivo. Dice: “visto che bella, un po’ mossa ma effetto voluto, pensa te che avevo la Reflex appresso, ma l’ho fatta col telefonino”. Oppure: “Vuoi mettere l’atmosfera, con la mia vecchia Leika, ho riadattato il bagno di casa a camera oscura”. Finzioni, se ne coglie il lezzo al volo. Come se le paturnie concettuali e i tecnicismi vintage, in epoca di tutto un po’, bastassero a raccontare altro dal vanesio gusto personale. Ecco, Lisetta Carmi invece cercò con tenacia di sparire dietro la macchina, per lasciare posto al visibile e alla sua transeunte verità; cercò con dedizione, trovando infine nell’induismo imbastardito, meditativo e caritatevole, la pace. Ora non scatta più foto, da tempo ormai; quello che voleva fare l’ha fatto.