L'utopia della città ideale
Le utopie non nascono a caso. Quando l’uomo percepisce che il mondo così non va, si proietta sull’isola che non c’è: bellissima, perfetta. E realizza così, nella sua mente, un mondo ideale. Che non esisterà mai, perché non può esistere. E soprattutto non deve esistere. Del resto, la storia insegna che chi ha provato a costruire società perfette, ha in realtà ottenuto solo tragedie.
Tommaso Moro, umanista inglese del ‘500, per primo, ha ideato il termine; ma la sua “Utopia” non si esaurisce nella città ideale: prende forma a partire da quella reale e ne fa una critica spietata. La società inglese del Cinquecento, in rapida evoluzione, accentua le ingiustizie: i ricchi sono sempre più rapaci e i poveri sono ridotti alla fame al punto che – perversione delle perversioni - il sistema che fa l’uomo ladro finisce per punire il furto niente meno che con la pena capitale. Un’assurdità. Analizzate le storture, Moro delinea poi la città perfetta: qui la proprietà privata è abolita, tutti devono coltivare la terra a rotazione, vige il principio di assoluta uguaglianza, la tolleranza consente la professione di qualsiasi religione (tutto magnifico, ma attenzione: qui l’utopia prende forma solo nella dimensione del racconto dell’immaginario viaggiatore Raffaele Itlodeo e l’etimologia di “Itlodeo” rimanda significativamente a “narratore di frottole”, “chiacchierone”).
Se a Moro si riconosce l’invenzione del termine “utopia”, nemmeno prima erano mancati tentativi di costruire mondi ideali: nella “Repubblica”, Platone aveva teorizzato che la città ideale (anche qui tutto era in comune) dovesse essere suddivisa in tre classi: i lavoratori, i guardiani, i filosofi. Gli unici ad avere diritto alla vera educazione dovevano essere i filosofi. Per gli altri, in particolare i guardiani, era necessaria la menzogna (Platone la definisce “nobile”), perché tutti rimanessero al loro posto e non osassero mutare l’equilibrio della città perfetta.
Ecco dunque il punto: la menzogna, madre di tutte le dittature che si sono nutrite delle utopie. Perché le utopie, come suggerisce la stessa etimologia, sono luoghi che non esistono, perché non possono in alcun modo esistere. Perciò l’uomo si trova di fronte a bivio, che porta in direzioni opposte: realizzare l’utopia o tendere a essa? Andare contro o verso l’uomo? Sì, perché trasferirsi nell’isola che non c’è vuol dire staccarsi dalla realtà e navigare verso il suicidio. Invece, coltivare una tensione significa, più modestamente ma molto più concretamente, migliorare una società imperfetta. Perché l’utopia è un’arma pericolosa e va maneggiata con attenzione. Come dimostrano i regimi comunisti del Novecento, che, partiti con l’idea di realizzare la giustizia e l’uguaglianza sulla terra, hanno finito per negare ogni forma di libertà. E sono stati infine spazzati via dal vento inesorabile della storia.