Non ci sono regole

I come Immagine.

Interiorità - “Ci sono cose che nessuno riesce a vedere prima che siano fotografate” ha detto Diane Arbus. Eppure, siamo soliti pensare alla fotografia come a una riproduzione identica del mondo che ci sta davanti agli occhi. Ma, in verità, qual è l’esatto confine che in essa separa la realtà dalla fantasia? Impossibile negare che una foto sia un’immagine o, secondo l’etimologia (mimaginem ), una mimesi, una rappresentazione, vale a dire un’imitazione soggettiva. E, d’altro canto, quanta parte di quell’universo presumibilmente comune, quel qualcosa che chiamiamo il reale, è anch’essa frutto  della sola immaginazione individuale?  

In effetti, sogni, ricordi, speranze, fantasticherie e desideri di ciascuno di noi concorrono a formarne il significato complesso e determinano anche quell’insieme di funzioni che viene abitualmente archiviato come percezione sensoriale. Perciò, la convinzione che lo sguardo registri macchinalmente gli oggetti di cui abbiamo coscienza è pura illusione. Credere che, a sua volta, il meccanismo fotografico ne restituisca con assoluta neutralità delle copie conformi, non può essere che un’illusione al quadrato. “Fotografiamo le cose per estrarle dalla nostra mente” ha scritto Kafka, intuendo con chiarezza come l’apparecchio del fotografo sia rivolto verso la sua psiche, ben più di quanto non tenti di fissare la realtà ridotta a semplice fatto.

È così che, alla stregua di tutte le belle arti, anche la fotografia tenta di rendere visibile ciò che per sua natura non lo è o, meglio, di rivelare il contenuto immateriale  di quanto è dato all’esperienza immediata della vista come cosa priva di interiorità.

Iterazione -  Agli inizi del secolo scorso Walter Benjamin pensò che l’avvento della tecnica fotografica avesse causato la fine dell’epoca in cui l’arte, circondata dall’ aura, era stata oggetto di culto. Ciò nonostante, non poté esimersi dal constatare che “nell’espressione fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografie, emanava per l’ultima volta l’aura. E questo ne costituiva la malinconica e incomparabile bellezza”. Unicità, incanto, durata, compresenza di vicino e lontano sono gli elementi che il concetto di aura riassume e che, secondo Benjamin, plasmavano lo sguardo meditativo dei “fruitori” dell’arte antica. Gli stessi che la riproducibilità meccanica delle immagini avrebbe poi trasformato in “consumatori” di choc, affamati di visioni sempre più ravvicinate, capaci di colpire e impressionare all’istante. Da digerire rapidamente, prima che altre le rimpiazzassero, in un flusso continuo e invasivo.

Alcuni decenni più tardi, Giulio Carlo Argan notò che “Fu proprio attraverso il confronto con la fotografia che l’arte andò via via distaccandosi, per differenziarsi, dal concetto classico della mimesi, e si costituì una morfologia e un lessico senza radici naturalistiche. Ma la divisione di campo non durò, la fotografia invase anche quel dominio: si presentò come operazione più mentale che tecnica, potenzialmente creativa come e più della pittura”. A ciò si aggiunga che, nella seconda metà del secolo scorso, tanta pittura si è sviluppata su basi fotografiche, mentre ancora numerosi sono i fotografi che ai giorni nostri usano la loro macchina con intenti ed esiti prettamente pittorici. E questo ha reso la distinzione tra i diversi mezzi espressivi ancora meno efficace come strumento per spiegare la trasformazione delle modalità di percezione dell’arte.  

Se è vero, com’è vero, che l’aura ha abbandonato le immagini, con ogni probabilità le ragioni del fenomeno non sono da ricercare nell’evoluzione tecnica dei processi creativi, ma piuttosto nelle mutazioni antropologiche in atto nella società. Il sistema dei consumi di massa, promuovendo la diffusione ininterrotta delle opere d’arte come merci genericamente destinate all’intrattenimento (poco importa se uniche o seriali, figurative o astratte, realiste o fantastiche), ha creato un pubblico di spettatori con caratteristiche molto simili a quelle dei frequentatori di spettacoli sportivi. Quello che conta è la moltiplicazione delle occasioni e la conseguente prossimità e familiarità degli oggetti. Le mostre si susseguono come le partite, le opere sfilano come gli atleti e lo spettatore vota loro la propria ammirazione il tempo di un incontro o di una scommessa. Per di più, ognuno sente lo sport abbastanza vicino da poterlo praticare in modo amatoriale. Il che spiega l’orribile proliferazione di immagini di tutto prodotte da tutti.  Che, di preferenza, sfornano ad libitum ritratti fotografici di se stessi, forse nella vana speranza di suscitare, tramite l’iterazione della propria immagine, l’apparizione della propria aura perduta.

L come Libertà.

Leggerezza - Il desiderio di alleggerirsi di tutto quello che rappresenta il peso della vita ordinaria nella sua realtà materiale, cioè vincoli, oneri, carichi e zavorre, costituisce di certo uno dei principali moventi dell’immaginazione. E nell’immaginario, grazie alla sua capacità di ospitare ciò che ancora non esiste e, quindi, non è frutto della necessità, si trova indubbiamente il terreno più fertile per la libertà. In questo senso, l’arte di inventare, o l’invenzione dell’arte, si può interpretare proprio come lo slancio mentale verso quella leggerezza che affranca da ogni sorta di oppressione.

Italo Calvino ha tracciato mirabilmente, nelle Lezioni Americane, i contorni di questo ragionamento e ne ha situato la nascita nel mito di Medusa. Perseo, eroe dai sandali alati che gli permettono di spostarsi in volo, reso invisibile dall’elmo di Ade, riesce a tagliare la testa della Gorgona perché, osservando nello scudo solo il riflesso del mostro, ne evita lo sguardo che lo avrebbe pietrificato. Dal sangue di Medusa nascerà Pegaso, il cavallo alato, leggero come l’aria e inafferrabile come il vento. I simboli sembrano consegnarci un messaggio chiaro: uno sguardo diretto sul mondo ci rende pesanti e immobili come pietre. Solo la nostra abilità nel trasformare la materia in immagine ci consente di spiccare il volo che rende liberi.                                                                                                                                                                              

Così si scopre che il linguaggio, vale a dire la combinazione delle immagini, siano esse plastiche o verbali, sollevandoci dalla gravità delle cose, ci offre l’opportunità di disporne a piacimento, liberamente. Crearle, distruggerle, migliorarle, deteriorarle, spostarle e modificarle senza fine. Non è un caso se le scritture sacre pongono all’origine del creato il verbo e la luce, cioè quanto di più lieve ed incorporeo la mente umana sia riuscita a pensare. Parola e immagine, è da esse che scaturiscono le infinite possibilità di esistere.

Linguaggio – La padronanza di un linguaggio è forse la più alta forma di libertà di cui un uomo possa godere. Il poeta capace di tradurre in parole l’intensità fisica di un sentimento, il pittore che dà corpo e colore a una visione, il musicista che inventa una melodia vivono esperienze molto simili all’idea che ci siamo sempre fatti dell’onnipotenza divina. Non a caso li si chiama creatori e non trasformatori o riproduttori. In effetti, si tratta della felice esperienza di trasporre la fantasia in realtà, che altro non è se non la pratica di un’assoluta autonomia. Una libertà che si nutre di libertà e genera libertà.

Vale la pena di ricordare la famosa frase pronunciata da Goya in occasione del suo insediamento come direttore della Reale Accademia di S. Fernando: “Non ci sono regole in pittura”. Il che significa che l’unica cosa che si può insegnare a un pittore è ad essere se stesso o, come avrebbe scritto Sartre due secoli dopo, a “essere la propria libertà”.

In questo senso, sarebbe lecito attendere che ogni opera fosse un gesto originale, quindi assolutamente nuovo e, di conseguenza, in qualche modo sorprendente. Ma allora, come mai oggi siamo sommersi da miriadi di copie (spesso inconsapevoli), ripetizioni pedanti, citazioni esangui e rifacimenti accademici che vengono comunque iscritti nel novero di ciò che è considerato degno di chiamarsi arte? Il fatto è che il nostro tempo è caratterizzato dalla progressiva perdita di identità degli individui in favore della loro dissoluzione nella massa. Il motivo, tutti lo sanno, è di ordine economico, legato alle modalità di produzione e circolazione delle merci. Ma questo fenomeno, che Ortega y Gasset denunciava già negli anni ’30 del secolo scorso, ha raggiunto ai giorni nostri la massima intensità. I linguaggi tendono all’uniformità e al conformismo, le differenze sono omologate nell’indifferenziato, l’unico sta definitivamente scomparendo nel molteplice. E, ovviamente, la rinuncia all’identità si traduce in una perdita di libertà.    

Ancora una volta le parole più dei fatti ci possono dare una visione chiara della realtà: massa, a gravità costante, è sinonimo di peso e contrario di leggerezza.

- continua -

 

03-04-2016 | 22:57