Perché ha meritato l'Oscar
Per La grande bellezza è stato detto tutto il peggio del mondo sulla trama, peccato che la trama fosse l’ultimo dei problemi, risolvibile in una parentetica alla Nabokov (amore finito-successo-solitudine e fatuità). Anche per la fotografia, che alcuni accostano periodici di moda per signore prive di eleganza. Si sono usati aggettivi come “oleografico” ed è stato detto che è il corrispettivo cinematografico della prosa di Alessandro Piperno.
A critiche giuste e brillanti si è accompagnato un inanellarsi di malignità e punti di vista sfocati che avrebbero fatto invidia a qualunque macchina del fango. Il problema è uno solo: che si deve assumere il punto di vista di Jep Gambardella per capire che il film è una scheggia di miseria umana che riflette la città più bella del mondo.
Il problema è biografico perché senza alcuni indispensabili elementi esistenziali il film risulta l’album Panini dei santini psicosociologici vezzeggiati dai bassifondi della critica cinematografica. Viceversa Jep è Virgilio e ci accompagna a spese sue, offrendo come se fosse il suo compleanno. E come regalo dobbiamo solo farci carico della sua esistenza.
Già se non si vive a Roma l’immedesimazione è difficile, perché sfuggirà l’elemento fisico della città, che solo in prima battuta sembra la vastità: il problema è che Roma non ha un centro. Ci si può rintanare al Pigneto o ai Parioli, ma si sappia che nessuno abita in centro. Esiste un centro storico, al limite, ma non di più, perché nemmeno il Colosseo è “il” centro. Esiste la periferia, ma non il centro. Niente piazza, niente ombelico. Se si cerca il centro si può girarla per sempre senza tornare. Vivere nel blob.
Bisogna esserci arrivati all’incirca all’età di Jep, ventisei anni, prima anche, ma non troppo dopo. Perché se ci si arriva a quaranta, magari per lavoro, si finirà a star spesso in casa la sera, perché si preferisce riposare anziché uscire in cerca della “vita”, delle cose che succedono, degli eventi, degli incontri. Molti incontri, ovunque, in qualunque parte della città, ma mai quello decisivo. Tanti incontri senza scopo. Tanti momenti morti insieme a degli estranei. Ciò si collega direttamente a un’altra esigenza autobiografica necessaria per apprezzare il film: il tempo.
Come il protagonista bisogna avere tempo per girare la città senza nessun obbligo. Non solo: bisogna anche rimanere a Roma abbastanza a lungo da aver fatto tutto quello che si può fare a Roma, festini e concerti vari, sempre uguali con varianti nei medesimi luoghi o poco distante.
Bisogna, come Jep, essere colti e non avere problemi economici. Colti per apprezzare la bellezza di Roma, la sua amarezza, la sua fatuità, per sapere a ogni passo già quarant’anni fa Manganelli voleva uccidere la Capitale e Flaiano vi si perdeva smagatamente. Bisogna avere il grano perché non ci sono escursioni senza finanziamenti: si deve girare senza proibirsi cene in ristoranti sofisticati dove realmente entrano le signore dalle labbra convesse che possono applaudire con zigomi e sopracciglia, bisogna potersi imbarcare in varie bevute, pagare vari ingressi in vari locali, numerosi abiti, far figura. Sennò si finisce al baretto vicino casa e quindi addio tour-Gambardella.
Solo a queste condizioni si può vivere il film, condizioni limitanti quanto si vuole, ma indispensabili laddove protagonista di una pellicola sia un ben determinato luogo e una ben determinata atmosfera. In tal senso è un po’ un film sentimentale, perché anche il più bel film d’amore del mondo lascia immoti se non si conosce l’amore. Idem in questo caso: anche il più bel film su Roma lascia immoti se non si conosce Roma. La sua claustrofobia en plein air, la consapevolezza di essere chiusi in un labirinto per giganti, dove non accade nulla, dove i trenini non vanno mai da nessuna parte. Dove c’è solo la bellezza, non sempre e non dovunque, ma per “incostanti sparuti sprazzi”.
C’è anche da aggiungere che, per i suddetti motivi, non ci sono molti modi per raccontare Roma. Essere frammentari e rapsodici, come la vita che vi si fa. Essere flâneur nell’orrore della meschineria di chi vive schiacciato dalla grande bellezza. È la materia a essere ostica e Sorrentino non poteva fare molto meglio. Il problema è che bisogna viverlo, quindi, forse, anche quanto detto finora risulterà – lo si pensi detto alla Jep – “oscuro”.