Raymond che fallì trionfalmente
“Non so chi sia” è sempre una bellissima risposta; autentica, sincera, in qualsiasi caso o combinazione spendibile sulla bocca di tutti, con quel ché di sfida da patteggiare al meglio. Perché l’ignoranza, per fortuna mai colmabile in vita - se non a patto di risultare noiosi o fissati in libri divenuti soprammobili - è pur sempre libertà di recupero, soprattutto quando contrapposta alla nozionistica da ragnatelosi filatelisti del sapere. “Non so chi sia, o chi sia stato, Raymond Roussel, mai sentito nominare” è ancora meglio, vieppiù per chi coltivi gagliarde ambizioni letterarie e slanci pirotecnici d’egocentrismo scribacchino. Ci fu chi azzardò con saggezza quel bel “impara a disimparare”, quasi un epitaffio d’amnesia per i rammendatori di parole. Drammaturgo, scrittore, poeta, padre putativo della patafisica – quella cosa che aborrisce etichette inventandone di nuove, sicché la buttiamo lì subdolamente, come se fosse davvero importante saperne di più – Roussel nacque a Parigi nel 1877 e morì, probabilmente suicida, a Palermo nel 1933. Il soggetto in questione appartiene a pieno diritto alla reietta casta della letteratura minore, sicché risulta arduo recuperare alcunché di suo in libreria. Bene o forse male, ma perché trattarne dunque, invece di dimenticarsene per sempre, al di là di un pretestuoso centoquarantesimo anniversario di nascita? Forse perché vi sono pertinenze con l’attualità, più curiose del banale dato anagrafico.
Monsieur Roussel, assai benestante di nascita, alta borghesia parigina, formazione musicale e quindi conseguenzialmente matematica, s’avventurò con una certa incoscienza nel brumoso ed impalpabile reame della poesia, forse per capriccio, forse perché i conti esistenziali non tornavano. Ognuno dissipa a suo piacimento, e lui, come a dire: sono ricco, ricchissimo, m’annoierò ai cavalli, alle vernici e a teatro, tanto vale mi strugga nell’inchiostrare il bianco. Quel candore abbacinante che è sempre spavento e sfida, per il piccolo o grande creatore. Il momento prima di muovere a scacchi, l’immacolata piazza a quadri da invadere specularmente: nero contro bianco, bianco contro nero, faccende per conquistatori o invertiti, trastulli per strateghi calcolatori o martiri dell’araldica. Ancora una questione di sangue, ci si convince che ciò che esce dalla penna non sia meno che fuoriuscita ematica incontenibile, fecondazione pitagorica del mondo, mal che vada partenogenesi mistica, irrigazione teatrale dello sperpero di sé. Raymond Roussel, forte di una vocazione alla dilapidazione, sorretta da quel dandismo bramoso di vacuità per contrappeso ai tormenti interiori, riuscì nella mirabolante impresa di collezionare un fallimento dopo l’altro. Scrivere senza lettori, sceneggiare senza pubblico. Ambizione ed abbiezione, il sabotaggio quasi pianificato dei propri radiosi piani. Tutti disastri clamorosi, in quanto annunciati e immaginati come successi certi, sadiche fustigazioni per le brame di celebrità dell’autore. Qui non siamo nel format Van Gogh, ovvero nel poverismo incompreso dall’epoca e riscattato dai posteri. Roussel disponeva di tutte le risorse necessarie per appagare, tutt’al più politicamente, le proprie ambizioni. Ma fallì trionfalmente, eccedette il concetto stesso di fallimento, ponendosi così nell’empireo delle lodi in negativo.
Il calembour, il rebus e le scomposizioni fonetiche, la vivisezione scientifica della parola, quest’ultima poi rimescolata in obbedienza ad uno spartito esoterico tutto suo… matematico impazzito d’un Roussel. Le combinazioni architettoniche sfebbrate in costrutti inutilizzabili, tutte caratteristiche ben evidenti nell’opera Locus solus, l’inanità in letteratura per eccellenza, un microscopio da collezionista d’insetti fissato su pagina e andante chissà dove per conto proprio, il lusso di non essere compresi e la penitenza di pagarne le conseguenze in vita. E pure dopo, fino agli omaggi postumi dei patafisici e alle attenzioni di Michael Foucault. Il lettore, come perso tra i viali del gioco monopoli, è visitatore senz’abaco, fatica ad arrangiarsi in quel ginepraio sempre più fitto di collegamenti slittanti, fino all’assurdo. Scrive Roussel ne La veduta: “Si vede addirittura un cappello di paglia volar via, perché il suo proprietario, un po’ troppo benevolo, non ha tenuto conto né della bellezza, né della frescura”. Ecco, in questa visione del mare, parola sempre elusa in quanto stemperata in atmosfera, egli narra metaforicamente della sua sconclusionata vicenda. Lo si rammenta oggi, alla notizia che l’istruzione pubblica forma o sforna analfabeti. Raymond Roussel ne avrebbe recato conforto, giacché se nessuno più legge, egli potrà finalmente reputarsi al pari di altri scrittori d’alto lignaggio. Allori postumi pure per lui, ci si augura finisca quanto prima in “citazioni”.