Aldo Busi e le vacche amiche

Quando si reinventa una lingua, quando la letteratura prende dimensione dal suo stile e le parole diventano preziosi fendenti contro ogni luogo comune, caricando il loro portato semantico di nuovo significato, ecco, allora la storia che si racconta diventa un mero pretesto. Di Alessandro Manzoni e James Joyce, per citare i più prossimi a noi, non si ricordano tanto un matrimonio che non s’ha da fare o un tizio qualunque che bighellona tutto il giorno tra le sue ossessioni piccolo borghesi, bensì la forza dirompente della qualità letteraria capace delle cose dette sopra.

Tra i pochi viventi capaci di questo uno è Aldo Busi, e questo lo sappiamo da tempo, ma con il suo ultimo Vacche amiche (Marsilio) ribadisce questa cosa con un letteratura che, se possibile, rasenta altitudini ancora più impervie. Con questo libro siamo vicinissimi ai due mostri citati prima – e chi pensa a un’iperbole non ha mai letto Busi e se lo ha letto non ci ha capito niente o se crede di averci capito qualcosa ma contraddice questa asserzione non ha letto attentamente i due mostri – non certo perché un’autobiografia non autorizzata (sottotitolo) debba essere la summa etica ed estetica di uno scrittore, ma perché qui la lingua porta in un cul de sac e in un orizzonte sterminato allo stesso tempo; inteso che tira in ballo il labirinto semantico percepito ma al contempo lo spinge con forza oltre ogni confine mai varcato fino ad ora: un ossimoro non metafisico, ma fisico, che quasi lo tocchi con mano. Riguardo a Busi si parla spesso di romanzo circolare – refugium peccatorum di chi vuole elevare un romanzo all'archetipo più nobile della modernità, ancora Joyce, Finnegan nella fattispecie – ma qui siamo oltre le colonne d’Ercole, qui siamo nel romanzo infinito, elevato alla n, dove nessuna linea geometrica è possibile, esteticamente ed eticamente – in Busi non scindibili, anche se dovrebbero esserlo in chiunque – vicino alla forma esponenziale, big bang.

Un romanzo, naturalmente di questo si tratta, anche se il sottotitolo potrebbe indurre qualcuno – un po' per la mai caduta moda che il romanzo è morto, un po' perché non lo si è mai capito bene – a pensare ad altre forme non ben identificate ma, comunque, non romanzo. Un romanzo, si diceva, che vede Aldo Busi alle prese con altri Aldo Busi in una disfida “all’ultimo Busi”, ossia a chi debba prevalere tra il personaggio letterario Busi, lo scrittore Busi e l’uomo Busi – tutti troppo retorici e fantastici per essere reali, quindi più reali del reale, soprattutto se uno e trino non vale solo per la mistica ma, qui la prova, anche per il materialismo storico. Bene, qui non prevale nessuno, e nessuno perde, vince il "tutto busiano" finalmente svelato senza un solo grammo di pietas per il lettore.

Romanzo polifonico, si è detto in qualche sede; sì polifonico ma per voce sola, aggiungeremmo, dove la voce è spesso negazione di se stessa – non contraddittoria, si badi! – eternamente viva e, dunque, dialettica, ossia filosofica. Il romanzo in tre punti: una vita – la sua, del Busi–, un’ambizione verso Davos, oggi località sciistica e di altre cose economiche, ieri luogo letterario per Thomas Mann, e tre donne della vita – la loro – che hanno tradito quel dare incondizionato che chiameremmo cristiano se non fosse riferito al soggetto in questione. Un amico che niente chiedeva sul piano materiale, ma tutto chiedeva in tema di riconoscibilità, nel senso "riconoscimi!", imperativo. Poi un Paese come questo, in cui un popolo così “ancora tanto che a governarlo non ci siano i licantropi”, abitato da “non lettori” – figuriamoci lettori di Busi quanti… – dove l’uomo non prevale sul maschio, e viceversa, e al massimo diventa un sex toy con il quale passare venti, venticinque minuti e scaricare lo scaricabile.

Ecco, in questa dimensione l’amore è riservato solo alle donne, alle tre vacche ma non solo. Anche a quella Marì, adolescente piena di deformazioni conosciuta da ragazzino, che quel giorno al Teatro Sociale, mentre lui già provetto ballerino la vide scrutare giù dal loggione – “dal cui parapetto spuntava con la testolina che faceva andare da una parte all’altra come un pinocchietto” – e la invitò a ballare, cosa che nessun altro ragazzo avrebbe mai osato fare, e la gente sgranò gli occhi mentre la faceva piroettare felice. Ma attenzione non per lei – guai – ma solo perché il giovane Busi era “uno stronzetto esibizionista che però si faceva forza” (chiara la questione della parola che si nega, senza contraddirsi, nel suo divenire?). E anche a quella dottoranda tirolese che gli scrisse, qualche anno fa, per avere una sua idea su Proust, Recherche e dintorni, e alla quale lui contravvenendo alla parola data a se stesso decise di rispondere con una mail generosissima che andrebbe elevata a summa critica su Proust, parola definitiva, incontrovertibile sulla questione. Stop. Alla fine finisce male anche qui, ma questo non sorprende più, in un Paese, in un mondo, in cui non c’è più spazio di mercato per la letteratura che non sia “subcultura dell’immagine e della tecnologia da vista” dove tutto si guarda e niente si legge. L'istantocrazia, punto e basta, ma soprattutto l'incapacità o la nolontà di farsi un'autonomia critica, indipendente, abile nel vedere le cose nel loro insieme, nel contesto.

Un tutto che è metafora di questo popolo insipiente, e che riporta a quel celebre racconto di Borges, Funes, o della memoria, che racconta di un uomo – Funes, appunto – che ha una memoria stupefacente, enciclopedica, dettagliata per ogni cosa della vita. Ma quando viene posto di fronte a un cane frontalmente, di lato e da dietro, Funes non vede un solo cane, ma ne vede tre diversi: figura delicata per denunciare la mancanza di idea platonica, d’insieme, astratta, frutto dell’intelligenza attiva. La parola di Busi diviene perciò fondamentale per definire una  “cosa”, filosoficamente “ente”, utile ad oggettivare e sostanziare il mare magnum del pensiero contemporaneo frammentato in mille rivoli e dunque bisognoso di ricomposizione.

L’unico vero difetto di questo romanzo e che, se letto a vicinanza temporale ristretta con altri romanzi importanti, riconduce gli altri scrittori, anche se grandi, al solito alveolo della forma epistolare, parodistica, imitativa della realtà, di quando la lingua, insomma, non vince la storia. E allora, magari capita che un grande libro come Sottomissione di un grande scrittore come Houellebecq diventi - scoccia dirlo - davvero poca cosa. Ma non è colpa di Busi, e neanche di Houellebecq. La colpa è di quelle maledette vacche.

 

(in copertina Bams Photo Rodella) 

 

02-04-2015 | 14:39