Quella tela chiamata Gioconda
È necessario farsi a mente una filogenesi del moderno museo – dalla quadreria dei conoscitori, toscani, veneziani, fiamminghi alla Wunderkammer e cabinet de curiosités di sovrani e savants eccentrici; alla grande grotta d’Alì Babà delle rapine imperialiste da Napoleone a Vittoria, nell’Ottocento – per capire l’impatto che l’attuale Grand Louvre ha su enormi folle.
Quest’immensa astronave dove tutto il passato umano ordinato in catalogo ragionato si sospende e si annulla nel presente immediato del consumo e della fruizione turistica, oggi invita le grandi folle a radunarsi in lunghissime code davanti alla Pyramide, prezioso e futile oggetto-regalo, con le sue due sorelline ai lati, con uso di lucernario. Dopo attese sfiancanti sotto il sole si discende nell’atrio d’aeroporto che tutti abbiamo visto solo in sogno – calda pietra parigina giallo-paglierino – e qui è lo spazio stesso a smistare quelle folle verso diverse capsule d’altri tempi ben ordinate per civiltà ed epoche: Egitto, Grecia antica, Italia che fu, etc. Sceltane una, è la grandiosità stessa, la pletora e la Grandeur, a costringere a un rito di consumo simile a quel che si è visto a Roma attorno al cadavere dell’ultimo papa defunto: lentissima processione fittissima, compressi tra indesiderabili tette, culi, sudori aggravati da inani deodoranti più urticanti dell’iprite. Poco meno di un trentesimo di secondo è concesso per mirare di sguincio le opere.
Come attorno al corpo mistico del santo defunto, migliaia di camerine digitali e telefonini – nell’era del digitale le foto non sono più proibite nei musei – si alzano sopra il moto ondoso di teste a immortalare per amici e parenti a casa quelle di maggior valore totemico. Un miracolo si produce nella stanza della Gioconda – da qui la mia gratitudine. Quell’ormai quasi invisibile pellicola screpolatissima di pigmenti verdastri – resa più invisibile da un vetro anti-tutto spesso tre centimetri, dietro il quale appare l’ectoplasma quasi cancellato di un ricordo remoto – è posta al centro della stanza. Nessun totem deve mai aver avuto maggior forza d’attrazione, anche presso i più superstiziosi tra i nostri antenati – l’immagine che viene alla mente è quella degli scimmioni di Kubrick in 2001 attorno al monolite nero. Gli si produce davanti, subitaneo, un muro di corpi, e vani sono gli sforzi dei guardiani del museo per districarlo. Migliaia di camerine e telefonini vengono innalzati sopra le teste per duplicare all’infinito la quasi invisibilità della cara salma. Get the smile! urlano isteriche obese mogli americane, poco fiduciose nella destrezza tecnologica di mariti con immensi culi in mutandoni flosci. Il miracolo è che questo assiepamento nel rito totemico permette – unica stanza in tutta la sezione pittura italiana – di contemplare in perfetta tranquillità e letizia la dozzina di meravigliosi Tiziano di tutti i periodi – forse la più bella scelta antologica al mondo – o i tre Lorenzo Lotto, magici e misteriosi, e ottimamente restaurati. Cos’è ormai il museo nell’epoca dell’industria del mass entertainment? Quel che credeva il barone Vivant Denon, che su incarico di Napoleone del Louvre fu padre: uno strumento di educazione e formazione morale del cittadino? Attendo risposte.