Almodovar tra Eschilo e Mondrian

Julieta, l’ultimo film di Almodovar già in sala – dopo un recente passaggio a Cannes curiosamente anonimo - ci riporta finalmente al Pedro Almodovar dei tempi migliori. Negli ultimi anni il percorso del maestro spagnolo sembrava alternarsi tra due orizzonti, purtroppo entrambi dal respiro epigonale: o un’inquietudine iconoclasta alla Bunuel o la riscrittura “iberico latina” dei moduli melò di Douglas Sirk. Quest’ultima fatica del maestro spagnolo si può ricondurre al secondo filone, quello che negli anni ci ha regalato pellicole importanti come Tacchi a Spillo, Tutto su mio madre e Volver.

Come nelle altre opere precedenti la forza principale sta nel personaggio femminile al centro della vicenda. Julieta è una protagonista dalle complesse dinamiche personali e sociali e non a caso nasce - per intuizione di Almodovar - fondendo ben tre protagoniste di altrettanti racconti del premio Nobel Alice Munro. Un melodramma che sintetizza la parabola di questa vicenda umana che si rivela appunto in tre atti, come nella più nobile tradizione del dramma classico e delle sue trilogie. Mai come stavolta avvertiamo infatti nel film di Almodovar la presenza della tragedia greca, un modello colto ed inedito per un cinema noto ai più - da sempre - per i suoi riferimenti pop. Almodovar, giunto nel pieno della sua maturità, riesce a superare questo confronto, dimostrando di aver assimilato compiutamente la lezione dei tre grandi tragici ateniesi, e di aver letto e studiato a fondo i saggi del filologo austriaco Albin Lesky. Autore che in molti abbiamo studiato al liceo e che la giovane protagonista, supplente al ginnasio di latino e greco, legge sul treno durante quella notte che cambierà la sua vita. Il senso tragico del destino e della colpa “ereditata” presente in Eschilo - senza scomodare in citazioni troppe sofisticate la precisa scuola germanista - ci offrono non a caso la chiave di lettura ideale su cui procedere nella visione del film.

I personaggi (protagonista e antagonista) si muovono in tutte le latitudini del film in una composizione grafica che richiama sempre Mondrian. I personaggi in scena - complementari tra loro - indossano sempre i vestiti con tonalità che richiamano i tre colori base tanto amati dal pittore olandese. E camicie a scacchi, e finestre come gabbie ci rimandano continuamente ai reticolati tanto cari sempre al più grande astrattista del secolo breve. Tornando alla pittura del novecento la scenografia è concepita come una grande natura morta. Vuoi anche per i riferimenti espliciti alla ceramica e ad una certa oggettistica desueta, in più di una volta pare che l’azione drammatica si sviluppi dentro a delle tele del nostro Morandi.  

Se Mondrian e Morandi sono una cifra del film, e se Eschilo è il titano che sfida Almodovar, ritroviamo con piacere nel film altri elementi ricorrenti del suo cinema che non possono non gratificare uno spettatore attento. Il personaggio tragico, oltre ad ereditare questi massimi sistemi, diventa anche stavolta -nel corso delle vicende personali che si riflettono nella sua vita- una metafora della Spagna e dei cambiamenti rapidissimi che ha dovuto affrontare la nazione iberica in queste ultime generazioni. E come in Volver e Tutto su mia madre quel fardello di vita vissuta diventa anche la coscienza civile di una nazione che – senza perdere il contatto con la sua tradizione- ha saputo crescere e cambiare identità. E di questo mondo Almodovar è stato ed è ancora il vate. 

 

 

 

 

31-05-2016 | 16:04