Arrigo che amava negarsi
Nel dicembre del 1908, durante l’inaugurazione della nuova sala dei concerti al Conservatorio di Milano, gli si presentò un tale: “Ho l’onore di parlare con Arrigo Boito?”-“No, lei si sbaglia, mi succede spesso di essere scambiato per Boito perché gli assomiglio moltissimo, ma non sono Arrigo Boito”. Uno dei suoi trucchi per negarsi. “Natura nervosa, eccitabilissima “ capace di sorprendervi con i suoi mutamenti improvvisi specie verso le persone che non gli andavano a genio, lo giudicò Giuseppina Strepponi Verdi quando lo conobbe, avvenuta la riconciliazione col Maestro dopo l’Ode saffica col bicchiere alla mano pubblicata da Boito nel novembre del 1863 e inneggiante a una nuova arte italiana “perché la scappi fuora un momentino /dalla cerchia del vecchio e del cretino… Forse già nacque chi sovra l’altare /rizzerà l’arte, verecondo e puro, /su quell’altar bruttato, come un muro di lupanare”: una freccia avvelenata, ispirazione del movimento intellettuale della Scapigliatura comparso nei primi anni Sessanta, sinonimo di “spregiudicatezza” che univa alle picconate sarcastiche, contro un’arte italiana decrepita e provinciale, l’augurio per l’avvento di un nuovo mondo aperto alle influenze europee. Boito ne vibrava tutto con la passione che ben aveva individuato la Strepponi: “Quando invaso dall’ammirazione, capace di sconfinati entusiasmi e fors’anche talvolta, per effetto dei contrasti, capace di eccessive antipatie”. Verdi, dietro consiglio dell’amica comune, la contessa Clarina Maffei, lo aveva incaricato di scrivergli il testo dell’Inno delle Nazioni per l’Esposizione Internazionale di Londra del 1862. In segno di riconoscenza il Maestro gli fece omaggio di un orologio che gli ricordasse “il valore dl tempo“. Sottile ammonimento che non nascondeva la verità: Boito aveva la tendenza a perdersi tra letteratura e musica senza operare fra le due una scelta definita e chiara. Lo interessava comunque a fondo il libretto del melodramma italiano, che desiderava non rimanesse soltanto funzionale, quindi sottomesso alla musica, ma di pari grado, elevando l’insieme del canto, riscattandolo dal frequente squilibrio, fra la bellezza della musica e la banalità del testo letterario, suono e parola, insieme trattati con la cura che merita ogni opera d’arte: e ciò anche se il suono dovrà esercitare il ruolo di maggiore importanza-al quale si giunge on l’aiuto della parola.
Il primo libretto verdiano vero e proprio affrontato da Boito fu nel 1881 Simon Boccanegra, rifacimento della quasi dimenticata versione 1857. Nell’intera vicenda (a Genova, sulla metà del XIV secolo), l’episodio che strappa l'applauso del pubblico è la tempestosa assemblea dei Consiglieri, divisi tra nobili e popolari, uno squarcio di cronaca pubblica ricostruita a caldo – la prontezza di un reportage. Verdi, eletto deputato e che si annoiava alle sedute parlamentari, ne propone una a dir poco grandiosa e appassionante, aggiunta da Boito, convocato d’urgenza a occuparsene, causa la grave infermità che aveva colpito il povero Piave. Il compositore e il neolibrettista riuscirono pienamente a traghettare la politica nel teatro, in particolare nell’aspro dibattito del Consiglio: superbo l'appello pacifista di Simone, "Fratricidi!!! Plebe! Patrizi! Popolo dalla feroce storia...", una larga frase, un rimprovero tonante che assume via via contorni d'aureola, invitando alla pace e all’amore...
Ma il meglio deve ancora venire: due capolavori di Boito librettista, che affiancano e superano la sua attività di compositore, Mefistofele, Nerone, pure ragguardevoli anche per il coraggio di innovazioni sperimentali. Dopo il successo del dramma dogale, ecco dunque in arrivo Otello, la seconda opera di Verdi da Shakespeare, subito molto invocata e corteggiata dall’editore Ricordi e da Boito che del libretto aveva approntato una prima stesura da discutere con Verdi, il quale procedeva lentamente, specie dopo un incidente che sembrava riportarsi alle polemiche dell’Ode saffica: un pettegolezzo giornalistico riferiva che Boito si diceva dispiaciuto di non musicarlo lui Otello… Rattristato per Boito, Verdi aveva scritto al direttore Franco Faccio “Il peggio si è che Boito, rammaricandosi di non poterlo musicare lui stesso, fa naturalmente supporre, com’egli non isperasse vederlo da me musicato com’egli vorrebbe”.
Boito altrettanto turbato, recapita a Verdi una dichiarazione di fede, un Credo nel già destinato autore: “Lei solo può musicare l’Otello, tutto il Teatro ch’Ella ci ha dato afferma questa verità; se io ho saputo intuire la possente musicalità della tragedia shakespeariana, che prima non sentivo, se l’ho potuta dimostrare coi fatti nel mio libretto, gli è perché mi sono messo dal punto di vista dell’arte verdiana, gli è perché ho sentito scrivendo quei versi ciò ch’Ella avrebbe scritto illustrandoli con quell’altro linguaggio mille volte più intimo e più possente, il suono”.
La tragedia, rappresentata nel 1604, si colloca alla fine del secolo XV nell’isola di Cipro, dominio della Repubblica di Venezia. Otello, moro, generale dell’Armata veneta, ha fatto sua la bianca gentildonna Desdemona. Fra loro c’è un mostro, l’alfiere di Otello, Jago, che odia il capo perché ha nominato suo luogotenente un tal Cassio, senza alcuna esperienza militare, che invece Jago aveva meritata “in cento ben pugnate battaglie” (a sentire lui). Portatore di fosca gelosia, con intrighi atroci e meschini, persuade Otello che Desdemona lo tradisce. Il moro la soffoca nel suo letto e, una volta riconosciuta l’innocenza della poveretta, si uccide. È l’alfiere il vincente, malefico orditore dell’intero dramma: non per niente il Maestro aveva pensato di intitolarlo a lui e diede non poche dimostrazioni del suo interesse per il temibile individuo.
Nel 1881 si complimentava col pittore Domenico Morelli che gli aveva mandato dei bozzetti: Che figura Jago!!! Bene, benone, benissimo!.. Jago colla faccia da galantuomo! Hai colpito! Presto dunque; giù quattro pennellate e mandami questa tela scarabocchiata. Giù, giù... presto presto... d'ispirazione... Come viene viene... non farlo pei pittori... fallo per un musicista!..."
Ancora anni di collaborazione fra il musicista e il librettista, ed eccolo il thrilling alla Scala, la sera del 5 febbraio 1887. Un trionfo: eccellenti il direttore Franco Faccio e il baritono francese Victor Maurel, ossia Jago. La critica specie straniera non tacque certe perplessità sul nuovo stile verdiano, che tuttavia finirà per convincere tutti, e raggiungere la popolarità in breve tempo, come lo stesso libretto malgrado i non pochi compiacimenti letterari eruditi (chissà poi che non suonasse come un adescamento, per gli spettatori: l’idea di assistere a qualcosa di grande)… Verdi, oltre a istruire la compagnia, si occupò anche della messinscena. uanto a Boito si rendeva conto che la truce vicenda poteva cadere nell'esagerazione e non lesinò consigli, specialmente per Otello, frenetico credulone. Consigliava ai cantanti di seguire i suggerimenti di Shakespeare agli attori, cercando nella semplicità la varietà. Esempio massimo quel “Dio! mi potevi scagliar tutti i mali” all’atto terzo, che alterna mirabilmente il parlato all’arioso con grandi possibilità espressive… Chi invece non ha niente da nascondere e scoprire, è Desdemona, dalla vocalità lineare, che corrisponde alla trasparenza di sentimenti, di bontà sincera. Qualcuno trova la sua chiara “Ave Maria” troppo voluta in un clima tanto inquinato, troppo distante nelle sue armonie modali da vecchio affresco chiesastico. Ma la soluzione calza perfettamente, anche per sottolineare il ruolo, che in effetti con la sua ingenuità contribuisce alla disgrazia del marito, che di altra ingenuità non necessitava proprio.
E chiudiamo col secondo, per non dire terzo Shakespeare, tardo capolavoro progettato e ricreato da Boito: la gran mole di Falstaff non poteva che uscire trionfatrice dalla 'prima' alla Scala, la sera del 9 febbraio 1893, protagonista Victor Maurel, direttore Edoardo Mascheroni. Verdi fu attivissimo alle lunghe prove, nonostante i suoi 79 anni compiuti. La critica, anche straniera, gridò al miracolo; George Bernard Shaw, che lesse lo spartito poco dopo, giudicò l'operista italiano "il maggior compositore lirico vivente".
Tuttavia Falstaff fu un "successo di stima", non toccherà mai i record raggiunti dalle altre creature popolari di Verdi, neppure dopo la rivelazione che ne fornì Toscanini, sempre alla Scala, nel dicembre del 1927, in cui forse per la prima volta si ascoltava un interprete degno del "pancione", possiamo dire una sua diretta discendenza: Mariano Stabile. Le ragioni poi di un mancato plauso del gran pubblico non sono difficili da spiegare. Falstaff è in prevalenza anche se non assoluta, un gioco di squadra. Tranne il protagonista, non ha parti emergenti che si impongano all'attenzione dei fans; il linguaggio musicale è frazionato in decine di stimoli acustici, ora dall'orchestra, ora dai pezzi d'insieme, spesso chiacchierii: in sostanza particolari non facili da afferrare. Il libretto a sua volta, farcito di espressioni auliche, di sottintesi, allusioni, per non dire complicazioni letterarie profuse a piene mani da Boito, non è sempre accessibile alla maggioranza di chi ascolta. Ciò non significa che i versi manchino di acume e brio, anzi, quando la comprensione si chiarisce - e avviene di frequente grazie alla sapienza dei parlati verdiani - umorismo e simpatia giungono al galoppo.
La conclusione della commedia, con la morale, è una fuga, "Tutto nel mondo è burla", la prima pagina che Verdi appuntò, iniziando a comporre, una "fuga buffa" la chiamò, il germe dell'intera costruzione, come il germe della Messa da Requiem fu il "Libera". È l'agilità di Falstaff, il suo andare verso un passato polifonico senza dimenticare l'opera comica all'italiana, come la veemenza e il languore del verismo: appartiene al proprio tempo e insieme lo sorpassa, con una freschezza rara in un uomo della sua età. Rapida sintesi fra passato e presente che tocca anche l'orchestrazione, di gusto recente, impressionistico ma non disfatto (non flou), leggero ma forte, una descrizione di interni-esterni ancora nitida, vecchio stile. Non poche coloriture vengono da Weber, forse primo pittore della natura in scena, con altri numerosi riferimenti alla tecnica del classicismo strumentale tedesco.
Accanto a pezzi ancora chiusi, troviamo artifici "alla Boito", che si basano sul declamato frammentario, fremiti e salti dissonanti e trilli in orchestra, oltre a qualche altra bizzarria buttata là all'improvviso, calcolata ma quasi distratta. Nel complesso una collezione di scampoli, stracci di guitti shakespeariani trascinati in un vortice brillante, sgorgati dal cuore con facilità e spontaneità.
In sostanza i diversi stili dell'opera differiscono di poco, fra loro non superano lo spessore di un capello e in un perfetto accordo permettono la vittoria, la vendetta della commedia ("una commedia lirica che non somiglia a nessun'altra" scriveva Verdi), la vendetta sul dramma della terza età, che trova in Falstaff il suo campione e vittima. Per ridere, per dar sapore alla vita, ci vuole ancora lui, nonostante la realtà amara degli anni che troppe volte lo portano alla caricatura di se stesso. Il compiacimento col quale si congeda alla fine dalla "gente dozzinale", che si permette di beffarlo, non poteva essere detto meglio: "L'arguzia mia crea l'arguzia degli altri": la garanzia che senza di lui ci sarebbe forse più serietà al mondo, ma non senza una malaugurata dose di noia. E la musica di Verdi risponde a questa affermazione, con la scaltrezza di un mercante che ha accumulato ogni sorta di tesori dalla tradizione del Sette-Ottocento e ora ha così pieno di bellezze in casa, da provare il bisogno di uscire fuori, all'aria: la sensazione che ci offre l'inno del giovane Fenton "Dal labbro il canto", un fruscio fresco, arieggiato, di parco mormorante, che accosterei ai quei trafori architettonici neogotici apparsi con l'Esposizione di Torino del 1890 e che vedevano in Camillo Boito, il fratello di Arrigo, uno degli esponenti più qualificati e ammirati da Verdi stesso. Incontro scapigliato, ridanciano, pazzerello, da Commedia dell’Arte riesumata. Dirige il tutto Sir John Falstaff, maestro decano sul ciglio della vita…
Il Maestro e il librettista lavorarono a contatto perché Boito veniva spesso al Conservatorio di Parma (quindi a Sant’Agata), dal 1890 direttore onorario e facente funzione, onde assicurare lo stipendio all’amico Faccio, titolare ma costretto al ritiro essendo caduto in quella fatale malattia di mente che l'avrebbe portato alla tomba. Nel '91 leggiamo ancora lettere gustose. Verdi a Boito: "Il Pancione è sulla strada che conduce alla pazzia. Vi sono dei giorni che salta, fà il diavolo a quattro... Io lo lascio un po' sbizzarire, ma se continuerà gli metterò la museruola e la camicia di forza". Boito, a giro di posta: "Evviva! Lo lasci fare, lo lasci correre, romperà tutti i vetri e tutti i mobili della sua camera, poco importa, Lei ne comprerà …vada tutto a soqquadro! ma la gran scena sarà fatta! Evviva! Dài ! Dài ! Che pandemonio!!!'. Ma un pandemonio chiaro come il sole e vertiginoso come una casa di pazzi!! Io so già quello che farà Lei. Evviva!".
Manicomio allegro opposto a quello tragico dello sventurato Faccio. Il Conservatorio di Parma sarà intitolato a Boito. Toscanini vi studiò quando ancora si chiamava Regia scuola di musica, dalla quale usciva nel 1885. Alla morte di Faccio, nel luglio 1891, Boito rinunciò all'incarico. La città gli stava stretta. Nello stesso anno Toscanini è alle prime armi come direttore e nel 1898, per l'Esposizione generale italiana di Torino, si afferma nel repertorio sinfonico, dirigendo un ciclo di 44 concerti, con 54 compositori e 213 esecuzioni di 133 lavori, 48 in prima a Torino. Boito, stupefatto, fa in modo che Arturo entri come direttore stabile al Teatro alla Scala. Non sarà facile accontentare il nuovo arrivato, un professionista eccezionale che pretendeva il meglio sempre e dovunque. Il punto di maggior tensione fu raggiunto nella stagione scaligera del '98- '99, proprio col Falstaff, quando Ricordi, l'editore di Verdi, arrivò a scrivere che Toscanini era rigido nell'interpretazione e cancellava "gran parte degli effetti già altra volta ammirati nella stessa opera" e che insomma rappresentava "un serio pericolo per l'arte italiana". Boito continuò a sostenere esattamente il contrario. Il tempo gli diede ragione e premiò Toscanini, che dell'amico più anziano diresse più volte il suo capolavoro, Mefistofele. Nel novembre 1918, lo ripresentò in omaggio alla memoria dell'autore, scomparso da qualche mese. Si dedicò quindi alla preparazione del Nerone, l'opera lasciata incompiuta da Boito, che andò alla ribalta della Scala il 1° maggio 1924 con una messinscena grandiosa, la maggiore realizzata alla Scala da Toscanini. Un avvenimento che raggiunse la portata d'una celebrazione nazionale. Mussolini in persona telefonò dopo il primo atto per sapere come stava andando.
Toscanini, sempre alla Scala, volle celebrare il 10 giugno del 1948 il trentesimo della morte di Boito, con brani da Mefistofele e Nerone in forma scenica. Un ricordo di colui che l'aveva introdotto nel tempio del melodramma e al quale in sostanza doveva uno dei primi passi decisivi nella carriera.