Birdman: gli artigli sull'Oscar

Bello che abbia vinto Birdman. Un film così poco hollywoodiano che riesce a incantare Hollywood, o spiazzarla, che forse è più vero e sicuramente è più utile, soprattutto per il pubblico che per gli Oscar ha particolare, per non dire esclusiva, attenzione.

Kafka che non ha digerito Dostoevskij, o viceversa, se dovessimo fare un mirabolante collegamento con la letteratura, Inarritu con questa storia squarcia le viscere dell’immagine spesso troppo patinata del mondo dello spettacolo, raccontando il dramma di chi ne vive sino a non saper fare altro che questo. E di questo a volte muore, restando solo e non sempre ricoperto d’onore.

Il regista conosce quella rara magia che lo fa riuscire a conciliare la sensibilità tutta latina, visionaria e malinconica dei suoi racconti per immagini, con il bisogno di forte impatto visivo del cinema nordamericano.

Già con Amores perros e ancor più forse con 21 grammi, al centro della sua poetica c’è l’anima, il suo peso, le sue imprevedibili e spesso fatali declinazioni.

Con questo film per il cinema, che racconta il cinema attraverso il teatro o, meglio ancora, racconta un personaggio attraverso l’attore e l’uomo da dietro la maschera, Inarritu riesce davvero a far vedere un prodotto di grande qualità, estetica e lirica, al grande pubblico.

Un film sulla fame d’amore degli artisti e sulla paura dell’invisibilità, che appartiene a tutti ma che per un attore è il mostro nero che gli mangia i piedi di notte se non sente applausi sufficienti. E spesso gli applausi non bastano mai in un mondo dove devi essere più forte e più duro di qualsiasi bisogno, per quanto essenziale, si frapponga fra te e il successo.

Birdman racconta con una struttura originale e penetrante l’incapacità di vivere che è spesso direttamente proporzionale al talento dell’artista e la fragilità estrema di chi conosce più maschere che volti e che all’improvviso decide di crescere, cosa estremamente impegnativa per un artista, se tale vuol restare.

Magistrale la scelta di Micheal Keaton, volto per molti ormai associato a Batman e quindi ancora più efficace come Birdman, con le guance svuotate, ed i segni sul viso che più che dal tempo sembra segnato dal peso di una maschera inevitabile che vorrebbe lasciarsi alle spalle per ricominciare a vivere, per ritrovare la figlia e la passione che lo aveva fatto incominciare e per riprendersi la moglie, l’unica che non gioirà del sanguinoso successo. E anche Edward Norton e Naomi Watts, credibili e tormentati come forse sono stati in gioventù calcando palcoscenici in cerca del successo, sono perfetti.

Suggestive ed intense le ambientazioni nel backstage del teatro, in un’atmosfera tra il claustrofobico e l’onirico che fanno pensare anche ad un Woody Allen in versione dark e ci regalano una sorta di retrospettiva sul mondo del teatro come forse ne servirebbero anche in Italia, per incominciare andarci sempre di più.

Il film si conclude nella maniera più poetica che ci si potrebbe aspettare, finalmente davanti ad un cielo dove sfrecciano uccelli veri. Rimanendo, come piace a noi, sul poetico, dovremmo forse leggerci un invito a non vergognarsi  del bisogno di storie spesso “semplicemente” fantastiche. Chiamiamola  virtù dell’ignoranza  o voglia di sognare, poco importa, ma salviamola sempre.

 

 

23-02-2015 | 20:34