Cosa ci racconti ancora Ingrid?
C'è qualcosa nel cinema nordeuropeo che fa sentir freddo dentro, in fondo al cuore. E non si tratta di un'associazione immediata al clima e alla luce di quei luoghi, o all'algido aspetto degli attori scandinavi. No, si tratta della lama d'acciaio che pende sui dialoghi e sugli sguardi, pronta ad affilare i sentimenti fino alla purissima essenza dell'espressione, senza sbavature o concessione ai sentimentalismi.
Quel freddo però è un freddo che brucia a lungo e che porta a riflessioni circolari e senza tempo, da fare ogni tanto anche se comodissime non sono.
Conviene a tutti affacciarsi a conoscere questo mondo di luci primitive e, insieme, intensamente raffinate, che la cultura scandinava ci offre come una misteriosa e affascinante scatola cinese da aprire più volte negli anni, dalla giovinezza alla maturità, per goderci i diversi e complessi fremiti che quella carta così sottile, leggera e insieme taglientissima, potrà regalarci.
A Roma, dal 15 al 19 aprile presso la Casa del Cinema di Villa Borghese, si svolgerà il Nordic Film Fest e vale la pena non perderlo. L'8 aprile poi, a fare da apripista al Festival, si inaugura una splendida mostra fotografica su Ingrid Bergman e sul suo speciale rapporto con la città di Santa Marinella, con una ricca programmazione e qualche sorpresa.
Del resto quando parliamo della Bergman non possiamo che aspettarci un magico stupore. Un'attrice che ha conquistato il mondo intero, trovato un posto unico fra le stelle hollywoodiane, ma che nello stesso tempo non ha mai perso il fascino della sua terra d'origine, intatto nonostante le numerose e felici contaminazioni con mondi molto lontani dal suo.
Un film sicuramente da rivedere, parlando di nord e artisti scandinavi, è "Sinfonia d'autunno". Un capolavoro di Ingmar Bergman in cui, tra l'altro, Ingrid ha un indimenticabile ruolo da protagonista, insieme all'ottima Liv Ullmann.
La bellezza della Bergman, ormai non più giovanissima, toglie il fiato. Nel suo abito rosso, indossato per schiaffeggiare gli ipotetici critici pudori della figlia che secondo lei la vorrebbe a lutto, è uno spettacolo che da solo basterebbe. "C'è una grande differenza tra emotività e sentimentalismo... devi soffrire senza darlo a vedere". E vincere, sempre. Ecco Charlotte, bellissima nuvola rossa, mentre calpesta senza voltarsi indietro le speranze di sua figlia di trovare una madre pronta, finalmente, a fare la mamma come a lei è sempre mancata.
La sua interpretazione, di un'artista egocentrica capace di saltare da una tragedia a un discorso sulla moda in un battito di ciglia pur di mantenere il tempo della scena e non guardarsi mai davvero dentro per non morirne, è magistrale.
La storia raccontata in questo film fa molto male, se la si guarda con sincerità verso se stessi. Denuda implacabilmente la complessità e la crudeltà che spesso trovano spazio nei rapporti madre-figli, che possono declinarsi nelle perversioni o depressioni più violente, da entrambe le parti. Ne avevamo già parlato in questa rubrica, con il film "E adesso parliamo di Kevin", di Lynne Ramsay.
Charlotte è una pianista che ha avuto successo, uomini, denaro. Nel mezzo, due figlie. Una gravemente handicappata, l'altra follemente ferita da un'infanzia priva di slanci sinceri e affettuosi da parte della madre.
Ed è questa seconda, Eva, la maggiore delle due, che "non smette mai di sperare", a invitare la restia madre a visitarla, in seguito alla perdita del suo bambino ed alla scelta di ospitare la sorella malata, Helena, presso casa sua, nonostante la madre la volesse "al sicuro" in istituto.
Helena è la sconfitta, il fallimento, l'imperfezione, l'ostacolo alla fuga dalla realtà in favore di una vita in cui Charlotte non ricorda nessun volto, nella quale è solo la musica a indicare il cammino, perché lei "non è mai cresciuta, forse neanche nata".
Victor, marito di Eva e pastore, osserva e a volte ci racconta cosa succede, col cuore stanco di chi invece di sperare non ha più la fantasia. O la forza, meglio. Ma è fermo, presente, padre rassegnato e forse il più solo di tutti nella sua calma tristezza.
Eva invece no, non si arrende nonostante lo strazio. Ed è struggente vederla mentre cerca la madre, orribile nella sua infantile indifferenza verso le pene altrui, perché ancora non riesce a credere a quello che invece sa perfettamente, da quando ha memoria di sapere. Eva, "convinta di essere cresciuta e invece mi accorgo che è ancora tutto così confuso". Eva, che accudisce la sorella Helena come forse avrebbe voluto sua madre accudisse lei, quando era piccola e indifesa.
"Io ti volevo tanto bene mamma, ma non credevo in quello che dicevi". Quale dolore più grande per un figlio? Non potersi affidare nemmeno alle parole di una madre, sapere di essere traditi, ancora e ancora, in favore di un'autoaffermazione spesso ai limiti del delirio di onnipotenza. Eppure la si cerca sempre, perché tanto bene e bisogno se ne ha da non poterci credere mai davvero, fino in fondo, che proprio lei possa averti distrutto la fiducia nella vita e nell'amore.
Charlotte alla fine chiede cosa può fare per recuperare. Ma non fa in tempo a chiederlo che è già scappata via, a raccontarsi la se stessa che la aiuta a sopravvivere a se stessa, come gli altri la raccontano. Come Eva, per esempio, la racconta, superando il teatro materno con la semplice frase "la verità è solamente una, il resto è inganno".
Un figlio che chiede la "verità" difficilmente sarà amato, raramente cercato, mai perdonato.
E sempre vivrà con la nostalgia per qualcosa che non conosce, una specie di dio buono che tutti gli altri, nella sua straziata immaginazione da bambino ferito, chiamano mamma.
E con questa distruttiva nostalgia, sarà pronto a offrire pietà e comprensione. "Vivere ciò che resta. Fiducia. Non arrendersi anche se è troppo tardi. Non può essere troppo tardi".
E invece sì. Certe volte è troppo tardi e basta, anche all'inizio di una storia. E mentre si fa di tutto per convincersi che non può esser vero, la vita scivola via, alla ricerca di qualcosa che non può tornare semplicemente perché mai è stata.