Cosa leggono i Presidenti?
In un articolo per il Wall Street Journal del 26 Dicembre 2008, intitolato Bush Is a Book Lover, Karl Rove (consigliere elettorale e vicecapo dello staff presidenziale per George W. Bush) fugava ogni dubbio circa l’interesse verso la lettura e la narrativa dell’allora Presidente. L’articolo, infatti, raccontava non solo di ciò che Bush aveva letto nell’ultimo periodo e dei suoi gusti letterari in generale, ma anche di una competizione di lettura che si era creata tra lui e lo stesso Rove, una sfida a chi durante l’anno trascorso avesse letto il numero maggiore di libri. Ai fini della gara, tuttavia, i due conteggiavano non solo i libri che avevano letto, ma anche il numero di pagine dei libri in questione, fino ad arrivare persino a paragonare le dimensioni delle pagine dei rispettivi libri. Se si volesse scherzare, dunque, e senza tirare in ballo la poesia ermetica, verrebbe da dire che un’opera brevissima come The Waste Land di T.S. Eliot non avrebbe certo contribuito troppo significativamente alla vittoria di questa singolar(issima) tenzone.
Dunque l’attenzione di Bush verso la letteratura era evidente, ed egli veicolava, a prescindere dalla gara, un messaggio che conferiva dignità alla lettura e alla cultura. Passando poi alla presidenza di Obama, il discorso si è pure rafforzato e diventato ancor più manifesto dall’abitudine del Presidente Democratico di pubblicare su Twitter, ogni dicembre, la lista dei libri che aveva amato di più durante l’anno. Un’abitudine che è poi proseguita nel tempo. Tra i suoi libri del 2019, ad esempio, troviamo 38 volumi, e dunque circa tre libri al mese, un numero non irrilevante e sicuramente sopra la media della popolazione. Si tratta di generi molto diversificati che spaziano dalla biografia (di Harper Lee), alla narrativa contemporanea (come, ad esempio, Woman Other di Bernardine Evaristo, che molti potrebbero considerare come prevedibile e “politicamente corretto”), fino a libri di storia e saggi su politica e capitalismo. Tra i classici, o quelli che sembrano essere ormai classici contemporanei, troviamo soltanto Murakami (Men without women) e, per molti ancor più prevedibile e “politicamente corretto”, le opere complete di Toni Morrison (di cui non si specifica quali siano state effettivamente lette o rilette).
Con l’elezione di Donald Trump era più che prevedibile assistere a un drastico cambiamento anche rispetto a questioni “secondarie” come la letteratura: Trump si dichiarava infatti “troppo impegnato per leggere”. Tra i vari esempi che si possono riportare sembra illuminante quello legato a un’intervista con Megyn Kelly, la stessa giornalista che gli chiese spiegazioni sui suoi commenti misogini e che, poi, causando un pandemonio mediatico, fu attaccata da Trump in modo ancor più misogino (Trump affermò che c’era “sangue che le usciva dagli occhi e da qualche altra parte”). Kelly chiese infatti a Trump quale fosse l’ultimo libro che aveva letto e la risposta fu: “leggo brani, leggo sezioni, capitoli, non ho tempo”. Una risposta appunto prevedibile perché rientra a pieno titolo nelle strategie retorico-discorsive adottate dall’ex Presidente all’interno del suo individuale stile populista, il quale prevede sempre una serie di diretti o indiretti argumenta ad hominem o attacchi all’etica dell’avversario o della fazione avversaria. In questo caso, il nemico indiretto era l’élite intellettuale e dotta che è “solo chiacchiere e niente azione” (“all talk and no action”, una frase ripetuta un numero elevatissimo di volte), quelli che pensano a passatempi ameni e non al “fare concreto” o ai bisogni dei cittadini, quelli che, ad esempio in Italia, vengono sempre collocati nei cosiddetti “salotti” della cultura. Questa dei salotti è un’altra espressione, ormai idiomatica, che risulta fin troppo riduttiva e che indica chiaramente solo una parte della classe “intellettuale”, trascurando invece un’altra parte, ben nutrita, di seri studiosi e studiose che creano e comunicano cultura in ben altri ambienti, dalle biblioteche alle proprie scrivanie, durante le attività didattiche e le conferenze scientifiche.
Una simile visione manichea che divide intellettuali e non intellettuali secondo parametri etici di “bene” (quelli che non leggono perché hanno cose ben più importanti da fare) e “male”(quelli che leggono perché vivono in una bolla di astrazione romantico-intellettuale) si è poi fatta notevolmente strada negli ultimi anni, manifestandosi in attacchi sempre più espliciti verso chi produce cultura, chi fa ricerca, chi cerca risposte scientifiche in vari ambiti della conoscenza. E, dunque, è ormai diventato un luogo comune sentir attaccare, ad esempio, chi studia, perché “tanto non serve a nulla nel mondo del lavoro”, o chi è “intellettuale” perché implicitamente equivale ad essere “politicamente corretti”, “di sinistra” o, ancor peggio, incapaci dal punto di vista pratico, amministrativo, “concreto”. Una volta che si forma la visione manichea che divide tutto in bianco vs nero, senza basi logiche ma seguendo solo il pathos aristotelico, diventa difficile poi scalfire certe convinzioni, esattamente come succede con le fedi dogmatiche, a partire da quelle calcistiche. Tutti i commenti sulla presunta ignoranza di Trump, infatti, hanno certamente solo rafforzato tali schieramenti, come è tipico nelle comunicazioni populiste di vario genere o orientamento politico. Uno degli attacchi più feroci, ad esempio, arrivò da Tony Schwartz, il ghost writer del memoir di Trump (The Art of the Deal, 1987; per la precisione il suo nome era comunque sulla copertina), il quale, in The New Yorker, scrisse che secondo lui Trump non avrebbe mai letto un libro intero in vita sua, inclusa quella stessa biografia, affermando successivamente di essersi molto pentito della collaborazione. C’è da dire che, tuttavia, nel tempo, Trump ha anche elargito consigli di lettura, anche se, di nuovo prevedibilmente e in linea col suo personaggio, si trattava sempre di manuali di politica, libri celebrativi su di lui o contro Hillary Clinton e i Democratici. Tutti libri che descriveva su Twitter usando i suoi tipici aggettivi volutamente enfatici e volutamente generici come “excellent”, “fantastic”, “great” (tra questi, alcuni titoli esemplificativi commentati nel 2018: The Faith of Donald Trump: A Spiritual Biography; The Russia Hoax: The Illicit Scheme to Clear Hillary Clinton and Frame Donald Trump; Trumponomics: Inside the America First Plan to Revive Ou r Economy).
Il 2020, con l’elezione di Biden, è dunque l’anno dell’ennesima, e drastica, trasformazione di orientamento “anche” per quanto concerne la letteratura e lo stile retorico/discorsivo presidenziale. Biden era già conosciuto in quanto uomo di lettere, abituato a infarcire i suoi interventi di citazioni colte e sofisticate, fino al punto da essere preso in giro in varie occasioni e accusato dallo stesso Trump di parlare per citazioni (che implicitamente vuol dire fare sfoggio di cultura, cadere nel narcisismo o, addirittura, non avere idee proprie), alimentando, dunque, anche le polemiche sui suoi plagi più o meno volontari. Quello che in questa sede risulta interessante non è tanto l’ovvio contrasto con Trump, quanto, soprattutto, le differenze “di gusto” tra Biden e i suoi colleghi o predecessori democratici e più “politicamente corretti”. Tra le citazioni dotte di “sleepy Joe”, infatti, troviamo, oltre alla Bibbia, i grandi classici della letteratura come Mark Twain, Herman Melville e, soprattutto, i classici irlandesi e, in particolare, James Joyce, W.B. Yeats, e Seamus Heaney.
Nel 2016 Biden fece visita in Irlanda e scrisse una lettera per Ancestry.com rivelando quanto tale viaggio fosse per lui significativo, e affermando che le sue radici irlandesi avevano “modellato tutta la sua vita”. Scrisse che sarebbe andato lì per discutere di rinascita economica, commercio, politiche di migrazione e per celebrare “il nostro patrimonio comune. I nostri comuni valori di tolleranza. Diversità. Inclusività”. La ripetizione dell’aggettivo “nostro” segnala una funzione di inclusione e, appunto, di condivisione e unità, una delle strategie retoriche di ego-targeting spesso usata in ambito populista e non solo. Sempre sulla stessa scia, e con gli stessi toni empatici, affermò che nonostante i vari titoli conferitigli nel tempo, egli si sentiva sempre “il figlio di Kitty Finnegan, il nipote di Geraldine Finnegan di Scranton, e il pronipote di Edward Francis Blewitt, un ingegnere con il cuore di poeta”. La strategia dello story-telling familiare (molto simile a quella usata al tempo da Bernie Sanders) si fa poi sempre più carica di pathos e inserisce molto linguaggio valutativo circa il bisnonno, il quale, nelle sue poesie (scoperte da Biden in soffitta dopo la morte della madre) parlava di “entrambi i continenti” e di come “il suo cuore e la sua anima avessero attinto sia dal vecchio sia dal nuovo”. Un uomo che, ripete poi Biden in una martellante struttura paratattica costruita sull’anafora, “era orgoglioso”: “Era orgoglioso dei suoi antenati. Era orgoglioso del suo sangue. Era orgoglioso della sua città. Era orgoglioso del suo stato, della sua nazione. Ma più di tutto – era orgoglioso della sua famiglia”. Termina infine la sezione con uno dei sopraccitati riferimenti a Joyce: “James Joyce scrisse: ‘quando muoio, Dublino sarà scritta nel mio cuore’. Bene, la Pennsylvania del nordest sarà scritta nel mio cuore. Ma l’Irlanda sarà scritta nella mia anima”.
Oltre alle strategie retoriche che fanno da frame per la citazione, e oltre al fatto oggettivo delle radici irlandesi, è rilevante che la scelta sia ricaduta proprio su Joyce. Questo è forse dovuto al fatto che negli anni della formazione di Biden, Joyce si era fatto strada nei circuiti accademici americani, all’interno dei quali si determinò un canone di “gusto” molto specifico. Esponenti del New Criticism come Robert Penn Warren e Cleanth Brooks si concentrarono sull’analisi puramente testuale (close reading) di testi modernisti che ben si prestavano a quel tipo di approccio. Un tipo di letteratura poi definitivamente canonizzata da altre figure di spicco come Harry Levin (la sua prima introduzione critica a Joyce fu del 1941) e, soprattutto, Hugh Kenner. Se dunque, come nota Kevin Dettmar in The New Yorker, Joyce, Eliot e Pound entrarono nel canone (non fu così immediato per Virginia Woolf e le molteplici ragioni, seppur significative, esulano dal presente articolo), si trattava pur sempre di un canone “per pochi”. E questo pregiudizio, specie legato a Joyce, non ha mai cessato di esistere e di essere alimentato nel tempo. Dettmar, infatti, spiega in maniera molto precisa come, in quegli anni, Joyce fosse diventato uno “snob whistle”, un richiamo per snob (e potremmo dir che in parte è ancora così, e non soltanto in America). Sin dal principio, The New Yorker aveva rimarcato con sottile ironia questo status legato ai lettori di Ulysses, come nel caso della vignetta di Helen Hokinson (ora negli archivi della Yale University Library) che raffigurava una signora francese che, quasi di nascosto, chiedeva al libraio una copia dell’osceno libro (“Avez-vous Ulysses”, 1931). Oppure, nel 1934, Vanity Fair pubblicò una parodia chiamata “The People’s Joyce”, offrendo ai lettori “sei osservazioni socialmente corrette su Joyce da fare al proprio commensale durante una cena formale”. Il punto di Ulysses (e stranamente non quello di Finnegans Wakeche, viene da dire, è ben più complesso e farebbe ancor più colpo) è sempre rimasto lo stesso: un libro che crea ansia, che molti affermano di non aver terminato, di non aver compreso, o magari affermano di aver letto quando non è vero. Sicuramente è una di quelle letture che impressionano e che hanno reso Joyce “anche” quello che sicuramente non voleva essere, ossia un cliché, seppur un cliché per benpensanti colti e raffinati.
Basti pensare a Woody Allen (un altro intellettuale considerato snob, guarda caso) che, in Io e Annie nel 1977, prese di mira proprio quel tipo di intellettuali che sono poi diventati – paradossalmente – parte del suo seguito più accanito. Ad un certo punto del film, il protagonista Alvy si lamenta di una coppia: “Forse è al primo appuntamento. Si saranno conosciuti con un’inserzione sulla rivista Vita Ermeneutica: ‘Accademico trentenne desidera conoscere donne interessate a Mozart, James Joyce e sesso anale’”. Dunque il paradosso, a quanto pare, risiede proprio nella scelta e, chiaramente, pure quella di Biden è stata, per questi motivi, oggetto di svariate critiche e canzonature.
Se, tuttavia, Joyce è il riferimento “sofisticato” per eccellenza, Biden è stato più apertamente criticato per i suoi riferimenti ai poeti irlandesi. Anche in questi casi il Presidente ha usato il frame dello story telling familiare e infantile: da piccolo – ha raccontato – era solito leggere i volumi di Yeats insieme allo zio e poi, davanti allo specchio, leggeva i versi ad alta voce per allenarsi a non contorcere la faccia, e a controllare il respiro per superare la balbuzie. Tra i suoi preferiti, tuttavia, Seamus Heaney è quello più rilevante e, ad esempio, per due volte ha citato un verso di The Cure of Troy, nel 2017 dopo aver ricevuto da Obama la Medaglia della libertà, e nel discorso di ringraziamento dopo la vittoria alle primarie nel 2020: “La storia dice di non sperare da questa lato della tomba. Ma poi, una volta nella vita, l'agognata marea della giustizia si solleva e storia e speranza rimano”. Si tratta dell’adattamento in versi del Filottète di Sofocle (già citato da Bill Clinton), un dramma i cui riferimenti all’etica e all’integrità morale fanno rientrare la scelta di Biden all’interno dello stesso frame del politicamente corretto, intellettuale e dotto, che, secondo molti, caratterizza il suo stile oratorio.
L’ultimo esempio di citazione irlandese, invece ripetuta moltissime volte, è quella tratta dalla poesia Easter 1916 di Yeats e precisamente i versi: “Tutto è cambiato, cambiato completamente: una terribile bellezza è nata”. Si tratta di una poesia sulla Rivolta di Pasqua, quando un gruppo di irlandesi si ribellò contro l’occupazione inglese. L’insurrezione, si sa, finì nel sangue, ma rappresentò una tappa fondamentale per la futura indipendenza dell’Irlanda, arrivando a diventare l’emblema di un certo spirito di indipendenza, volontà di cambiamento e orgoglio, applicabile a vari contesti, non da ultimo quello americano. Una sorta di aforisma sovrastorico e sovratemporale, spesso svuotato di senso e reso quasi un ready-made orwelliano da rispolverare in vari contesti perché facilmente indirizzabile a svariati pubblici. In un articolo polemico per la rivista satirica ExtraNews Feed, Amy O’Connor prende infatti in giro Biden per il suo ossessivo ripetere che il mondo è cambiato o che sta cambiando e, di conseguenza, per l’uso sproporzionato della frase di Yeats da parte di Biden. L’autrice riporta ben 12 occasioni pubbliche, dal 2009 al 2016, e termina il suo testo in maniera caustica, affermando che, se la frase funziona in qualsiasi occasione, “perché scrivere tanti discorsi quando ne puoi scrivere uno nel 2009 e riciclarlo per i successivi 8 anni?”. Anche se si tratta di un articolo satirico e volutamente enfatico e tendenzioso, il concetto fa senza dubbio riflettere e pare offrire terreno fertile per le critiche verso l’élite intellettuale “da salotto” di cui si parlava prima.
L’eco letteraria che proviene dall’Irlanda e arriva alla retorica di Biden è udibile, seppur indirettamente, anche nei suoi discorsi recenti, incluso quello di ringraziamento dopo le elezioni, quando ha infatti parlato di ripristinare “l’anima” americana, di cambiamento e orgoglio (“to make America respected around the world again”, che parafrasa lo slogan di Trump in quello che è un indiretto ma evidente attacco ad hominem), di unità e cancellazione delle differenze (elencando tutte le possibili minoranze che sino ad ora non sono state ascoltate). Politicamente corretto? Populista di sinistra? Intellettuale vuoto e snob? Forse, tutto è possibile e occorre tempo per comprendere se le parole usate abbiano dei veri contenuti che saranno messi poi in pratica, o se si tratti, ancora una volta, di quelle “parole prive di significato” denunciate già da Orwell nel 1946 perché portartici soltanto di una “vaghezza nebulosa”.
Resta il fatto che abbiamo ora di fronte a noi una retorica diversa, una retorica che, innanzitutto, si fa anche meta-retorica: “È tempo di mettere da parte la retorica ostile. È tempo di abbassare la temperatura. Di guardarci l’un l’altro. Di ascoltarci l’un l’altro”. Se, da un lato, questo stile è più colto e conciliante, dall’altro può anche essere visto come solo politicamente corretto e vano, se non addirittura populista, anche se in modo inverso rispetto a Trump. In questo caso, chiaramente, la visione manichea si basa su contrapposizioni diverse che, almeno teoricamente, mirano all’unità. Nel suo discorso di ringraziamento, infatti, oltre al concetto chiave di “anima”, Biden ha sottolineato la necessità di cessare le ostilità e le divisioni (“facciamo finire quest’era di cupa demonizzazione in America”; “un Presidente che non cerca di dividere ma di unire”) e, all’interno dell’ennesimo frame familiare e affettivo, ha voluto direttamente sottolineare l’importanza dell’istruzione. Si è infatti subito presentato come “il marito di Jill” (ribaltando la prospettiva precedente di Trump e Melania e, dunque, si potrebbe anche dire, rimarcando ancora una volta una “divisione”), una insegnante di inglese che ha dedicato tutta la sua vita all’istruzione poiché “insegnare non è solo ciò che fa”, ma ciò che è, la sua vera identità. Un’immagine di donna, insieme a quella di Kamala Harris, opposta alle donne dell’era di Trump, come è stato scritto varie volte. Una donna che rientra appieno in questa immagine democratica, per taluni forse troppo corretta, di cultura e, soprattutto, di orgoglio della cultura.