Dio salvi la swinging London
A Londra, crogiuolo di memoria e novità, spesso accade che le più antiche istituzioni del Regno Unito si rivolgano ad artisti contemporanei per realizzare progetti di rilievo. Una consuetudine alla quale la Royal Academy - che vent’anni or sono fu all’origine del rinnovamento artistico della capitale con la mostra “Sensation” - non ha fatto eccezione invitando il pittore belga Luc Tuymans a curare un’antologica di James Ensor. Così, sotto il titolo “Intrigue” (nella foto sopra), preso da una delle opere esposte, Tuymans ha riunito con sensibilità una rassegna di dipinti, disegni e incisioni, che permette di apprezzare appieno il genio del maestro di Ostenda.
Borghese saturnino, anarchico individualista e artista ostentatamente “dilettante”, Ensor è stato senza l’ombra di un dubbio una delle figure più significative della pittura europea nel periodo di transizione dal XIX al XX secolo. Ma la sua traiettoria fuori dagli schemi, al tempo stesso anti-accademica e radicata nella tradizione fiamminga, dissacrante e visionaria, in sintesi massimamente originale, ha fatto sì che per lungo tempo la critica, sorpresa e spiazzata, abbia lasciato in ombra la sua opera. Si sono celebrati di volta in volta gli Impressionisti, i Simbolisti, gli Espressionisti, i Cubisti e i Surrealisti, ma si è dovuto attendere fino al secondo dopoguerra perché venisse riconosciuto tutto il suo valore e si ammettesse l’influenza che questo solitario inclassificabile ha esercitato sulla storia dell’arte moderna.
Radicalmente innovativa la pittura di Ensor è un esercizio di estrema libertà formale. Un capriccio nel quale i generi e gli stili si fondono o si contrappongono al servizio di una visione peculiare, destinata a suscitare meraviglia ed emozione.
Il segno caricaturale di Brügel, l’opulenza cromatica di Rubens e l’immaginazione fantastica di Goya sono le fonti d’ispirazione alle quali egli si riferisce esplicitamente. Mentre i soggetti sono tratti dalla sua vita pubblica e privata, dalla storia come dagli aneddoti, dalla musica, dai sogni e dalle frequentazioni letterarie.
Tanti gli autoritratti, volti a esplorare le sfaccettature della sua personalità, giovane dandy col cappello fiorito o scheletro sardonico che dipinge nello studio tappezzato di quadri. E poi i tessuti orientali, le maschere del teatro giapponese e le cineserie che la madre vende nel negozio di famiglia, immagini di un altrove simultaneamente domestico e onirico. E ancora, la buona società di notabili, medici, giudici e militari, sempre sbeffeggiati dal tratto grottesco e immersi nel ridicolo fino al collo. Il carnevale di Ostenda, simbolo di un mondo alla rovescia, in cui ogni persona è maschera e ogni personaggio il giullare di se stesso. Gli angeli e i demoni, icone della redenzione e del peccato di un misticismo laico e tutto estetico. Frutto di un’esaltazione creativa che trasforma la tela in un aldilà fantasmagorico, dove inferno e paradiso si confondono nel bliss, sorta di nirvana multicolore. E infine, la folla. Una folla di facce, volti, musi e grugni che brulica dappertutto, nella fantasia del pittore come sulla spiaggia del Visserskaai, nelle strade di Bruxelles come nella sala da ballo di Hop-frog. Moltitudine di figure umane, quasi umane o solamente immaginarie, che sono il doppio pittorico dell’umanità e ne rivelano la dimensione teatrale e drammaturgica. Un Theatrum Mundi che rapisce lo sguardo e assorbe il pensiero in un divagare leggero e profondo.
Un’opera straordinaria, una mostra bellissima. Un’occasione preziosa per capire come la pittura non sia affare di forma, di regole, di scuola né, tantomeno, di moda. Ma di visione, di sentimento e, in una parola, di libertà. E vale la pena sottolineare come quest’occasione venga offerta proprio dalla principale accademia del Paese, quasi per ribadire la tradizionale propensione britannica a promuovere l’originalità e l’innovazione.
Non è certo un caso se oggi Londra è per gli artisti quello che Parigi fu negli anni venti del secolo scorso. L’arte è di casa. L’azione delle maggiori istituzioni pubbliche, come il British Museum, il Victoria & Albert, la Royal Academy, la Tate Britain e la Tate Modern, la Serpentine, l’ICA o l’Hayward Gallery ha creato nel corso del tempo un terreno molto fertile per il proliferare di centinaia di gallerie e istituzioni private. E ne è derivata un’atmosfera di emulazione nella quale le mostre si moltiplicano e rivaleggiano in dimensioni e qualità con quelle dei musei.
In questi giorni, ad esempio, presso la White Cube a Bermondsey, è possibile vedere una ponderosa personale di Anselm Kiefer dal titolo “Walhalla”. Negli enormi spazi della galleria l’artista ha immaginato una serie di ambienti che si affacciano su un corridoio centrale, molto simile alla corsia di un ospedale militare. Le pareti laterali sono interamente rivestite con lastre di piombo e anche i letti da campo hanno materassi, cuscini e lenzuola dello stesso metallo. La parete di fondo è coperta dalla fotografia in bianco e nero di un uomo che si allontana verso l’orizzonte in una landa deserta, appena rischiarata dalle lampadine disseminate su tutta la lunghezza del corridoio (foto in basso). Nelle sale adiacenti sorgono dal grigiore plumbeo sculture, dipinti e installazioni di larga scala, ispirate talvolta al paradiso degli eroi della mitologia nordica e tal altra ai luoghi simbolici del Sefer Hechalot, trattato della mistica ebraica. In modo da ricostruire le stanze di una memoria magmatica in cui l’orrore e l’elevazione spirituale si affrontano e si confondono, immagini e ombre di un abisso senza fondo, tra mito e storia, allucinazione e ricordo.
Un insieme potente e complesso, concepito da Kiefer per esporre come paesaggi pittorici i campi di battaglia fisici e mentali sui quali l’umanità si è auto-distrutta. Brandelli di natura e di pensiero, reliquie della lotta tra la forza del male e l’energia della salvezza. Nella convinzione che la bellezza di cui l’arte è capace non si trovi solo dentro l’armonia delle forme, ma possa scaturire anche dal caos e dalla negatività.
Impressionante l’opera e altrettanto imponente lo sforzo produttivo della galleria privata che la ospita. Difficilmente immaginabile in un contesto diverso da quello londinese. Un contesto nel quale la ricchezza - leggermente meno cafona di quella della nostra Italietta di nani, ballerine, parenti e amici - converge sull’arte come simbolo del proprio potere, ma anche del proprio dovere di redistribuire dividendi alla collettività.
Altro esempio di questo clima è la Saatchi Gallery di Chelsea (a ingresso libero fin dal giorno dell’apertura nel 2008), popolarissimo museo privato che attualmente ospita una collettiva di nove tra i migliori pittori contemporanei dal titolo “Painters’ Painters” (foto in basso). L’idea su cui si basa la mostra è - nelle parole di David Salle - “che la pittura sia come un fiume con molti affluenti, da sempre uguale a se stesso tra la sorgente e il mare, ma nel quale è impossibile bagnarsi due volte nella medesima acqua”. E in effetti, nelle tele di ciascuno di questi artisti, si ritrovano con connotati diversi i temi e i modi che, da Giotto a Dubuffet, hanno costituito il corso secolare della pittura e ne hanno determinato il permanere anche ai giorni nostri, ubriachi di tecnologia e immaterialità.
La raffinata capacità di assemblare icone dissimili in un insieme omogeneo propria ai quadri di Salle è giustapposta alla figurazione brutale di Bjarne Melgaard. Le ricostruzioni di luoghi storici dipinte con puntiglio fotografico da Dexter Dalwood conducono alle delicate visioni oniriche di Ryan Mosley, come se si stesse sfogliando al tempo stesso il New York Times e Alice nel Paese delle Meraviglie. Le grandi tele dalle apparenze naїf e dai colori acidi di Martin Maloney si contrappongono alle caricature surreali e fosche di Ansel Krut. Mentre Raffi Kalenderian rappresenta con i modi dell’illustrazione popolare la Los Angeles dei bohémiens, Richard Aldrich indaga la possibilità di ridurre l’immagine a un concetto e David Brian Smith delinea il mondo della memoria con cura preraffaellita.
Un insieme appassionante che permette agli amatori di pittura - sempre che ne esistano ancora – di riflettere sullo stato dell’arte indipendentemente dalla pressione che il mercato e la propaganda esercitano con ostinazione quotidiana. Un’occasione di libertà ancora una volta offerta dalla città nella quale, paradossalmente, il mercato regna sovrano. Forse che per trovare la democrazia sia necessario diventare monarchici? Domanda tipicamente londinese. Dio salvi questa swinging London.