Doctorow, la lunga marcia del soldato
Edgar Lawrence Doctorow (6 Gennaio 1931 – 21 Luglio 2015) è stato uno dei più importanti scrittori americani del XX e XXI secolo, autore prolifico il cui sotterraneo sperimentalismo è riscontrabile nei suoi numerosi romanzi (tra cui Ragtime, Billy Bathgate, La marcia), nei racconti, nei saggi e nel dramma Drinks Before Dinner. In occasione della sua morte, il New York Times lo ha definito un “letterario viaggiatore nel tempo che ha mescolato il passato nella fiction”. Ci piace ricordarlo rendendo omaggio al suo romanzo La marcia, un testo in cui il confine tra romanzo storico e, appunto, l’immaginazione è labilissimo e a volte sorprendentemente sfumato.
Le pagine del libro, potremmo dire senza dubbio, emanano odore di polvere da sparo, di fumo, di sangue e di sporcizia. L’odore della guerra. Un odore forte che impregna le “vite fuligginose” che con la guerra interagiscono, muovendosi e trascinandosi per strade “coperte di sangue”. Nel 1864, durante la guerra di secessione, migliaia di soldati e schiavi liberati, condotti dal generale Sherman, avanzano sulla Georgia e sulle Caroline, lasciandosi alle spalle oltre seicentomila vittime. Questi i dati storici, ai quali Doctorow intreccia le vite di numerosi personaggi, dando voce alle loro paure, alle loro riflessioni, alla volontà di comprendere. La marcia è infatti sia un romanzo storico, rigorosamente documentato, sia una fiction storica in cui gli attori non “recitano” entro lo sfondo della distruzione bellica, ma vivono e sentono intensamente ogni ferita che si apre nelle loro coscienze, lasciando poco spazio alla speranza, comunque presente, di una veloce cicatrizzazione. Gli strumenti dell’“ago” e del “filo”, secondo Henry James indispensabili per costruire un romanzo, divengono qui gli strumenti per cucire la storia americana sulle vite dei personaggi e, allo stesso tempo, per intessere le loro vite nel più grande arazzo della storia stessa. Nel romanzo assistiamo alla continua compenetrazione di storia singola e sociale, individualità e universalità, dati storici circoscritti e coscienze che assurgono a simbolo eterno di una umanità pregna di sentimenti sovraspaziali e sovratemporali. La marcia è anche metafora della condizione di sradicamento dell’uomo moderno, di una coscienza che non può che abitare un mondo eternamente fluttuante, così come afferma un personaggio: “vedo la fermezza non nelle case radicate ma nelle cose che non hanno radici, in ciò che è itinerante”.
Il tema del viaggio, in tutte le sue accezioni, diventa uno dei nuclei tematici più importanti, e uno dei motivi ricorrenti che assicurano continuità semantica alla narrazione corale, nella quale ogni personaggio vive e “percorre” la propria storia e la storia del suo paese. Il generale Sherman, impavido e insieme codardo, la “negretta” Pearl che avanza travestita da tamburino, il dottor Wrede, uomo di scienza che deve arrendersi ai limiti della ragione, e il presidente Lincoln, il quale incarna nella sua lancinante tristezza finale, tutte le “ferite” della guerra. Ogni personaggio è un frammento del vasto mosaico storico, e viene paragonato dallo stesso autore a una “cellula”, unità infinitesimale che costituisce i tessuti di un uomo, per farlo poi diventare tassello dell’esercito e dello stato. La marcia e l’esercito diventano dunque un corpo unico e mostruoso, efficacemente descritto come una “bestia” che avanza lentamente ed inesorabilmente, dilatandosi e contraendosi come un verme, e fagocitando tutto ciò che incontra. Tali movimenti, di espansione e contrazione, ci riportano al ritmo di ispirazione ed espirazione, e a quello di sistole e diastole, alla base della preservazione biologica dell’uomo: la marcia diventa anche metafora del flusso temporale della vita, ineluttabilmente diretto verso il suo epilogo. “Il nuovo modo di vivere è la marcia”, afferma un soldato, esprimendo la consapevolezza di una morte che concerne tutti gli uomini e che la guerra ha il paradossale merito di riportare in superficie.
Il ritmo della marcia appare a tratti accelerato, come nei momenti di annebbiamento, e decelerato, come nei momenti di acuta percezione, capaci di dilatare il tempo e fornire a Doctorow terreno fertile per i momenti più suggestivi di penetrante poesia. Il romanzo procede per capitoli brevi che riproducono effimere illuminazioni e, allo stesso tempo, l’organizzazione sintattica si avvale di frasi brevissime e di altre più elaborate, rispecchiando lo stesso movimento sincopato della “bestia” marciante. Rilevante è anche l’alternanza di narrazione onnisciente e discorso indiretto libero, nelle cui oscillazioni si fonda il dubbio e la mancanza di certezze dei personaggi. Il generale Sherman, ad esempio, riflette sul concetto di morte, in un momento epifanico tra i più intensi del romanzo: “l’unica ragione per temere la morte è che essa non rappresenti una vera, insensibile fine della coscienza”. Forte è il richiamo ai temi esistenzialisti di assurdità e incapacità di comprensione, così come fortemente delineati sono gli echi della parabola nietzschiana del corso circolare e infinitamente ripetuto dell’esistenza. Ogni azione dei personaggi esprime infatti la volontà di andare avanti e di costruirsi un sentimento di speranza, nonostante l’orrore, incomprensibile e assurdo, che caratterizza le loro vite. E che caratterizza tutte le vite che, come quelle, sono ancora oggi divorate, fisicamente o moralmente, dalla “bestia” belligerante.