Due o tre cose su chef Rubio
Chef Rubio, al secolo Gabriele Rubini, è una star televisiva. Nasce come rugbista – ha giocato qualche partita anche in serie A – e poi è diventato cuoco facendo pratica e studiando alla scuola internazionale Alma di Gualtiero Marchesi. Dopo è arrivata la televisione, dove però non cucina mai: non ha un ristorante e davanti alle telecamere più che altro mangia, preferendo trattorie per camionisti alla nouvelle cuisine, perché crede che il cibo sia buono solo se è alla portata di tutti. Spesso è protagonista di iniziative a favore di chi vive ai margini: indigenti, detenuti, persone affette da disabilità. È di sinistra e sui social disquisisce su quasi tutto (fuorché di cucina): i suoi obiettivi preferiti sono i politici di destra, Salvini su tutti. Lo insulta spesso, e questo gli risponde quasi sempre. Chef Rubio è quello che si definisce un maverick, uno che mal sopporta l’appartenenza forzosa a banchi umani costituiti, uno fuori dal coro. Vero. Però spesso parla come mangia, con le mani più che col cervello. E più spesso straparla di cose più grandi di lui, con l’impressione che abbia studiato poco. Qualche giorno fa, dopo la tragica morte a Trieste dei due poliziotti Pierluigi Rotta e Matteo Domenego, per mano di Alejandro Meran, con un tweet ha fatto incazzare tutti. Un tweet abbastanza scomposto per due motivi: il contenuto, un po’ grossolano, e la sua sintassi, che è riuscita a non far capire cosa lui volesse dire. Ecco lo scritto incriminato: “Inammissibile che un ladro riesca a disarmare un agente. Le colpe di questa ennesima tragedia evitabile risiedono nei vertici di un sistema stantio che manda a morire giovani impreparati fisicamente e psicologicamente. Io non mi sento sicuro in mano vostra”. Apriti cielo, tutti contro Rubio: ma come?! Dà la colpa alla Polizia?! Ai due poliziotti?! Rubio al rogo! Allora, affinché Kant non abbia vissuto invano cerchiamo di razionalizzare. Nonostante la prosa poco felice il senso voleva essere questo: le colpe di questa tragedia sono dei vertici, dello Stato, che manda a morire ragazzi senza l’adeguata preparazione. Al di là se si è d’accordo o meno va riconosciuto che non ce l’aveva con i due poveretti (e vorremmo vedere!), come i suoi oppositori hanno tentato di insinuare. Purtroppo le disgrazie accadono, punto. E in un momento di forte emotività cercare il colpevole al di fuori di quello reale è esercizio alquanto azzardato. Quando le tragedie accadono, prima di parlare, sarebbe meglio rileggere ciò che si scrive o pensare a ciò che si dice – insopportabile il ritornello di tanti, spesso emblema della coglionaggine più acuta, “io dico sempre quello che penso!”, sì ma prima cerca anche di pensare a quello che dici.
Rubio se l’è presa anche con Massimo Giletti che in diretta lo ha invitato a riflettere prima di scrivere giudizi come “impreparati”, visto che non sapeva neanche chi fossero i due poveri poliziotti – vero – e ha cercato (invano) di telefonargli: nessuna risposta, anzi spernacchiamenti vari al conduttore nei giorni seguenti sui social. Insomma, uno chef che con twitter è diventato maître à penser e fustigatore alla rinfusa. Chissà cosa direbbe Schopenhauer, che diceva che quando un Paese comincia a chiamare filosofi i professori di filosofia vuol dire che è proprio alla frutta, nel vedere che oggi si rischia la stessa cosa, ma con i cuochi. Vabbè, sarà la modernità bellezza.
Detta in brusco e breve, come piace a lui, Chef Rubio incarna un po’ il perenne disagio storico degli italiani nei confronti della loro lingua, in particolare dei suoi registri formali e cancellereschi. Come in letteratura il frate Cipolla di Boccaccio o l’avvocato Azzeccagarbugli di Manzoni, fino alla mirabile dettatura della lettera di Totò a Peppino De Filippo. Poi lui parla in quella terra di nessuno che sta tra il dialetto spappolato e la lingua nazionale, dunque tutto si complica.
Rubio ha tanti motivi per essere criticato quanti per essere apprezzato. Partiamo dai pregi: Rubio ha coraggio, rischia, straparla ma è spontaneo; Rubio è uno che non ha paura di andare contro il senso comune e il Potere, e questo oggigiorno non è poca cosa; Rubio non è un indifferente, nel senso che si “sporca le mai” (anche quando non è a tavola) – sarebbe forse piaciuto a Gramsci; Rubio nei suoi programmi, come detto, mangia con le mani – gesto atavico, bellissimo, che i fighetti non capiscono; Insomma, Rubio parla pane al pane vino al vino. Ora i difetti: Rubio su Twitter si definisce “indipendent chef” o “food fighter” senza mettersi a ridere di se stesso; Rubio ama il cibo bisunto, e allora perché ha frequentato la scuola di Gualtiero Marchesi? delle due l’una; Rubio è molto simile al suo odiato Salvini, solo di un altro colore: ama risolvere le cose enormi con poche battute da osteria – una su tutte la questione Israelo-Palestinese: l’ha liquidata con elucubrazioni che neanche nel peggiore bar; Rubio è un ossimoro vivente, un cuoco che non cuoce mai neinte; Rubio ama molto fare il proletario ma si comporta da divo – se la tira, lo sanno tutti. Alla fine il contesto generale è sempre quello dell’Italietta minuscolo borghese: uno parla (maluccio) gli altri lo fraintendono (malissimo). Nessuno ci capisce niente, però intanto se ne parla.
Quindi, consiglio non richiesto, la prossima volta che decide di twittare su una cosa che coinvolge due ragazzi morti pensi alle sagge parole di Rainer Maria Rilke: “Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della notte: ma io devo scrivere?”.