I musei della letteratura
Alla luce di alcuni musei contemporanei particolarmente innovativi – musei d’arte, ma anche di storia o di culture o di scienze – è possibile arrivare a interessanti riflessioni circa l’intersezione dei saperi in un’epoca come la nostra in cui ormai quasi tutto sembra farsi ibrido e costantemente mutevole. Soprattutto attraverso il linguaggio.
Ormai i musei, dopo aver attraversato vari cambiamenti, non sono più concepiti soltanto come luoghi noiosi o polverosi, statici e immobili e vicini alle caratterizzazioni negative che ne fece Marinetti paragonandoli a “innumerevoli cimiteri”, o a “dormitori pubblici” o, ancora, ad “assurdi macelli di pittori e scultori”. In realtà, il discorso museale contemporaneo, nei casi più all’avanguardia, riesce ad abbracciare – citando le parole del linguista Philip Riley – “la totalità delle manifestazioni intellettuali di una società, i suoi parametri di riferimento, le ideologie e le pratiche sociali che li veicolano”. In altre parole, gli avanzati linguaggi utilizzati (verbale, visivo, multimodale e multimediale) riescono a veicolare messaggi molto rilevanti ai fini dell’inclusività e dello scardinamento di quell’atteggiamento troppo elitario verso la cultura che fino a non troppo tempo fa i musei veicolavano (e che molti ancora purtroppo veicolano). Chiaramente le strategie comunicative utilizzate possono anche diventare troppo sensazionalistiche, come spesso succede, troppo legate ai dettami banalizzanti del marketing, o per qualcuno possono essere persino troppo “democratiche” a scapito dei contenuti presentati, i quali vengono a semplificati fino alla soglia del semplicistico.
In questi nuovi scenari sono emersi, negli ultimi anni, svariati musei di letteratura in tutto il mondo, e alcuni di questi con notevole e immediato successo. Il concetto stesso ha chiaramente turbato molti studiosi o appassionati di letteratura, i quali si sono infatti chiesti – e spesso si chiedono ancora – come possa essere rilevante una trasposizione “museale”, e dunque anche visiva, di opere verbali concepite per essere lette in silenzio, almeno nella maggior parte dei casi. E soprattutto di opere concepite per essere interiorizzate e per stimolare le proprie facoltà cognitive e immaginative oltre che per favorire emozioni o riflessioni. Basti pensare alla mai risolta dicotomia tra mezzo letterario e mezzo filmico, laddove ancora oggi sentiamo dire frasi come “era meglio il libro” rispetto alla trasposizione cinematografica, a dimostrazione che le due modalità non sono mai interscambiabili fino in fondo. D’altronde, come già espresso da Lessing in Laocoonte, le arti letterarie sono “le arti del tempo”, e le arti visive sono “arti dello spazio”. Non è un caso che Joyce, in Ulysses, abbia ripreso e citato proprio Lessing per riflettere a fondo sulla sua volontà di spazializzare la narrazione, a partire da Dubliners ma poi, soprattutto, in Ulysses. E questo ci riporta, in un certo senso, al potenziale di un museo di comunicare in maniera anche visiva, e di “spazializzare”, quelli che sono invece contenuti verbali, favorendo lo sviluppo di un significativo interesse specialmente nei giovani che magari si avvicinano più difficilmente a certa letteratura.
Uno di questi esempi è il MoLi, il Museum of Literature Ireland, le cui collezioni e le cui mostre diventano davvero una ricostruzione efficace di molta letteratura, ma anche della storia di Irlanda e di Dublino, alimentando quella proficua intersezione di saperi di cui si parlava all’inizio, e che caratterizza tanta della museologia attuale più efficace.
Il progetto del museo nasce nel 2010 attraverso la collaborazione tra la National Library of Ireland e la UCD (University College Dublin) e si è avvalso della collaborazione non solo di curatori ed esperti museografi, ma anche di studiosi e accademici di letteratura irlandese, i quali hanno presentato parti del progetto e delle loro ricerche a vari simposi e conferenze internazionali, prima della effettiva apertura al pubblico che è avvenuta il 21 settembre 2019. Il museo ha poi proseguito le sue attività – almeno quelle digitali – con imperterrita determinazione, anche dopo l’arrivo della pandemia da Covid-19.
La frase accattivante e persuasiva utilizzata nel loro sito e nei comunicati stampa è: “Immergiti nei suoni dello story-telling irlandese attraverso i secoli, rintraccia tutte le tappe della Dublino di James Joyce e ammira rare gemme della National Library of Ireland, come la “copia n.1” di Ulysses”.
Se è vero che Joyce è protagonista indiscusso del museo, in realtà lo story-telling multisensoriale offerto riguarda anche altre figure e altri periodi storici. D’altra parte, Dublino stessa è sempre stata una sorta di museo letterario a cielo aperto, grazie a tutti i luoghi joyciani perennemente visitati da moltissimi turisti, ma anche grazie alle tracce di Oscar Wilde (a Merrion Square) o di Yeats (l’Abbey Theatre), e di molti altri.
Nel museo vero e proprio tutto ciò viene ampliato e, allo stesso tempo, concentrato, favorendo, appunto, l’esperienza di immersione. Al piano terra troviamo un grandissimo plastico che ricostruisce tutti i luoghi e i percorsi dei personaggi di Ulysses. L’opera è stata intitolata “Dear Dirty Dublin”, ossia la frase che Joyce prende da Lady Morgan e che inserisce in Dubliners e in Ulysses, per poi trasformarla, in Finnegans Wake, in “teary turty Taubling”. Adiacente al plastico si trova poi la maestosa istallazione visiva e sonora “Riverrun of Language” (“riverrun”, la prima parola di Finnegans Wake, tradotto in italiano come “fluidofiume”), la quale riproduce il flusso incessante di parole e di suoni che lo stesso Joyce ricreò in Finnegans Wake, un’opera che, non a caso, “va letta ad alta voce”.
Mentre al primo piano è possibile esplorare mostre come “The State, and Irish Writing”, che mescolano discorso letterario e discorso politico irlandese, al secondo piano è situata la sezione principale dedicata a Joyce, ricca di oggetti preziosissimi per gli amanti dello scrittore: si va dalle lettere autografe, ai manoscritti, alla prima copia di Ulysses ricevuta da Harriet Shaw Weaver, la famosa mecenate che favorì la difficoltosa pubblicazione.
Ma oltre alla figura di Joyce e di altri autori irlandesi, presentati mescolando continuamente narrazioni e descrizioni, il museo offre anche molte attività digitali di forte interesse per pubblici di vario tipo. Ad esempio, Radio MoLI, un canale radio digitale attivo quotidianamente e disponibile nel sito web, le cui trasmissioni affrontano temi contemporanei – di derivazione storico-letteraria – come l’etica legata al cambiamento climatico, il ruolo dell’empatia, la vita morale eccetera. O ancora, la possibilità di visionare i capitoli del film sperimentale di Alan Gilsenan ispirato a Ulysses, insieme a commenti di esperti. Fino ad attività di approfondimento come la significativa “Past/Present/Pride”: una serie di conversazioni, moderate dallo psicologo Paul D’Anton, che celebrano e raccontano scrittori e scrittrici irlandesi LGBTQ+, o che hanno affrontato tematiche LGBTQ+, mirando a riflettere su opere che hanno testimoniato e favorito significativi cambiamenti sociali, in Irlanda e non solo. E ovviamente moltissime attività educative e didattiche per bambini e ragazzi, tutte incentrate sulla letteratura, la scrittura e l’analisi dei testi: esperienze immersive e interattive che attingono alle più recenti metodologie didattiche di story-telling cognitivo, non tralasciando, ma neanche esasperandolo, l’aspetto più ludico.
Il tutto seguendo la frase di Edna O’Brien, utilizzata come uno degli slogan del Museo: “Il linguaggio vive più a lungo delle persone, ci trasporta di generazione in generazione. E’ immortale”. Un museo dunque che, oltre a essere un museo di oggetti, si fa anche museo del linguaggio tout court, cercando di esplorarne e raccontarne gli aspetti più significativi, sia da un punto di vista storico, sia da un punto di vista squisitamente teorico, andando a informare circa eventi storici, pratiche culturali, contaminazioni artistiche e mediali.
Gli oggetti diventano dunque parole e le parole oggetti, una fusione sicuramente controversa per qualcuno, ma senza dubbio degna di nota e di attenzione. In questo museo, così come in altri simili, sembra proprio avverarsi ciò che già Orham Pamuk scriveva nel libro Museo dell’Innocenza: “i veri musei sono quei posti dove il tempo si trasforma in spazio”.
L’esperimento di Pamuk, in maniera speculare, è utile qui per riassumere il potenziale, chiaramente migliorabile, di un museo di letteratura. Durante la stesura del libro, come è noto, egli fondò e sviluppò anche il museo omonimo a Istanbul. E così raccolse tutti gli oggetti legati alla vicenda del protagonista Kemal e dalla sua amata, sviluppando contemporaneamente il romanzo e lo spazio museale concreto. Nel museo troviamo ciò che i personaggi “hanno utilizzato, indossato, sentito, visto, raccolto e sognato, il tutto meticolosamente disposto in scatole e vetrine”. Secondo l’autore, infatti, lo scopo del romanzo e del museo era quello di “condividere, con la massima sincerità, i ricordi con altri individui, così da trasformare la nostra felicità nella felicità di tutti”. E se pensiamo alla citazione di Vico tanto amata da Joyce, secondo cui l’immaginazione non è altro che memoria, allora anche un museo come quello della letteratura irlandese riesce a raggiungere lo scopo di condivisione di ricordi, andando ben al di là dei confini storico-geografici d’Irlanda e raggiungendo quel carattere di atemporalità e aspazialità che è alla base di molta scrittura di Joyce. Così come è alla base delle riflessioni di Pamuk sulla temporalità ricreata e percepita in un museo: “Nei musei fatti con passione e ben organizzati, a confortarci non è la vista degli oggetti che amiamo, ma questa eternità di cui facciamo esperienza visitandoli”.