Il cattivo è un buono che perde le speranze
Il cattivo tipo Scrooge è roba per bambini. Un simile cattivone, che per giunta poi si pente, è buono per le badanti e per i frequentatori di serate benefiche e sagre dell’etanolo.
Il vero cattivo è un buono che ha perduto le speranze, difficile che le recuperi visto che il genere umano non manca mai di offrire motivi per farsi odiare. Il vero cattivo è soave, della soavità che hanno i dolcissimi veleni di Baudelaire. Il vero cattivo non ha mire, agisce per amor di dis-bontà, per dimostrare che i buoni sono ciò che resta quando i migliori sono finiti. Il vero cattivo crea le condizioni per cui risalti tale inferiorità dei buoni. E non fallisce mai l’obiettivo perché il buono è ben poca cosa rispetto al cattivo.
Quant’è prezioso un interlocutore cattivo lo sa solo chi vive in mezzo a dispenser di bontà, perché se c’è qualcosa che può mandare fuori dai gangheri il conversatore di dura madre integra quella è la bonomia demente del calendario di frate Indovino. Al contrario, il cattivo, con quel suo incantevole pessimismo, la sua falcata ampia, l’acredine domata come una siepe del Palazzo Borromeo farà la gioia di qualunque conversatore.
I nomi e le forme con cui la cattiveria è andata avanti nella storia sono moltissimi e sempre ispirati al massimo della trasparenza, della sobrietà, dell’eleganza. L’ironista è cattivo, Mastro Eccardo lo era, le fiabe hanno cattiveria in abbondanza, Heidegger fu il Sant’Agostino della cattiveria, l’inventore dell’enigmistica doveva esserlo con toni così augusti che toglie il fiato pensarci.
Il cattivo è una barzelletta atroce che svisa sul vuoto abisso della vita umana, che ride in faccia al buono annichilito dal fetore della propria carcassa, che fa torcere dalle risa la morte stessa mentre ti porta con sé in fondo al niente.
Chi può beneficiare di un interlocutore così superbamente – dunque diabolicamente – cattivo è il fortunato fra i conversatori, chi lo è ne è l’eletto. Chi è a secco dovrà dotarsi di munizioni da bocca per sopravvivere in appostamento dell’agognato cattivo o nell’attesa di sviluppare cattiveria in proprio.
In entrambi i casi raccomandiamo il più cattivo di tutti, che sa abilmente mascherare la propria cattiveria da verità: l’Anonimo del Qoelet.
Per scrostare dalle Sacre Scritture quel buonismo da almanacco, appiccicaticcio e fastidioso come sangue rappreso, che ogni domenica l’addetto alla manutenzione vi spalma sopra, nulla funzionerà come una dose di Qoelet.
Personalmente lo preferiamo nella vulgata di Guido Ceronetti, dove al dolore dell’anonimo si somma quello del traduttore alla ricerca della resa più congrua.
A questo punto sarebbe duopo citare qualcosa per invogliare il lettore a leggere, ma per cattiveria non lo degneremo di tale facilitazione. Accenniamo solo che chiunque cerchi della cattiveria su misura ne troverà nel mai-esausto-schiumante Anonimo, perfino per questa modesta guida ragionata ce n’è: "L’idiota ammassa parole" e "I libri che si fanno sono troppi".