Il cattivo poeta, d'Annunzio
Dopo mesi di attesa e non poche peripezie, è finalmente nelle sale il film di Gianluca Jodice, che racconta gli ultimi anni di Gabriele d’Annunzio, nella magnifica – o meglio ancora, immaginifica – cornice di quella che fu la sua ultima dimora, il Vittoriale degli Italiani.
Mentre un superbo Sergio Castellitto “carnifica” in modo sorprendente la memoria del Vate, riuscendo in un’impresa a dir poco complessa, ovvero ad interpretarlo senza caricaturarlo, a tenerlo nel suo tempo restituendocelo per quello che lui era, ovvero “altro” dal suo tempo, una specie di alieno raffinatissimo con codici segreti che forse solo oggi riusciamo davvero ad interpretare (anche grazie ad una sapiente indagine storiografica avvenuta negli ultimi anni), ecco che la poesia inizia a sussurrare, in ogni immagine, in ogni fotografia “riprendi quel libro in mano, liberalo finalmente dalla polvere del pregiudizio e fatti piovere parole rinnovate su di un volto panicamente silvano per l’occasione, in soffitta almeno dal liceo”.
Quale che sia il libro di d’Annunzio che vorrete riscoprire (o scoprire per la prima volta), forse dopo la visione questo film lo leggerete finalmente col cuore più leggero, più lieto.
No, d’Annunzio non era fascista.
Animale di lusso e quindi a volte ruffiano, nei primi tempi, sicuramente.
Nazionalista ad hoc per le sue fantasiose imprese militari, senza dubbio.
Ma strenuo oppositore della deriva del regime, senza farne segreto, tanto dal divenire sorvegliato speciale ed essere infine forse assassinato, anche e soprattutto.
Difficile pensare lo sapessero in molti prima di andare al cinema a vedere questo film, che ha quindi il merito innegabile di offrire uno spunto di studio ed approfondimento storico-letterario necessari per comprendere la complessità di un uomo geniale, troppo spesso etichettato per semplificazioni non proprio oneste e a volte subdolamente strumentali.
Il fascismo di Mussolini rappresentava per il Vate tutto il contrario del pensiero che lui aveva teorizzato e cercato di mettere in pratica nell’impresa fiumana.
Basterà leggere anche pochi articoli della Carta del Carnaro (la costituzione di stampo sindacalista della Reggenza italiana del Carnaro, scritta con il socialista Alceste de Ambris e promulgata l'8 settembre 1920 durante gli ultimi mesi dell’impresa fiumana), ove si sancivano principi a dir poco rivoluzionari per l’epoca e di stampo decisamente opposto a quello fascista: per citarne uno, la fondamentale sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione.
A pensarci bene, un principio ancora oggi di difficile realizzazione, figuriamoci allora. Eppure per d’Annunzio non vi erano dubbi e non ve ne furono fino alla fine, che quella fosse l’unica strada degna affinché una società potesse definirsi tale.
È superbo Castellitto mentre interpreta il poeta che immagina di avere dei topi in giardino fra le sue splendide rose, ne è ossessionato e agita il bastone sui rovi come Don Quijote fa roteare la spada davanti ai mulini a vento: nevrile e sconvolto dalla sensazione di essere invaso e corrotto, dimena qui la sua tragica veggenza, mentre il baratro si spalanca sotto i piedi e un cielo cupo si appresta a franare sulle teste del popolo italiano.
Se non fosse stato messo a tacere e non avesse scelto il suo autoesilio nella bellezza per sopravvivere all’orrore che divorava tutto, chissà se questo spirito poetico e rivoluzionario sarebbe potuto essere ispirazione per la vita, scavalcando l’istinto di morte ben noto con cui il ventennio si è concluso.
Questo non lo sapremo mai, ma è importante conoscere e comprendere un genio italiano per troppo tempo relegato in un ruolo decisamente troppo stretto.
Oltre all’interpretazione del giovane Francesco Patanè nel ruolo del federale Comini, messo alle calcagna del poeta ma presto soggiogato dalla sua grandezza, spicca quella di Elena Bucci, intensa e perfetta Luisa Baccara, volto della disperata resistenza alla barbarie, mentre tutto va in pezzi.
D’Annunzio era cantore di estremo vitalismo, creatura sensuale e selvaggia, raffinato ma sinceramente affezionato alle sue solide radici abruzzesi, amante delle donne e dei vizi ma soprattutto instancabile ricercatore di vita.
Nel suo Vittoriale, che in questo film possiamo ammirare mentre gli ambienti, tutti autentici, ci raccontano un mondo di ricchissime suggestioni, si era ritirato per salvare la sua personale utopia, ormai mestamente riconosciuta come tale. Nonostante questa consapevolezza però, egli fino alla fine dei suoi giorni affinché il rosso porpora vincesse sulla veste cinerea.
Canta la gioia! Lungi da l’anima
nostra il dolore, veste cinerea.
E’ un misero schiavo colui
che del dolore fa sua veste.
A te la gioia, Ospite! Io voglio
vestirti da la più rossa porpora
s’io debba pur tingere il tuo
bisso nel sangue de le mie vene.
Di tutti i fiori io voglio cingerti
trasfigurata perché tu celebri
la gioia la gioia la gioia,
questa invincibile creatrice!
Fosse anche soltanto per questa appassionata e mai tradita intenzione, merita di essere riscoperto, come poeta e come uomo.