Il silenzio degli oziosi
L’ozioso, abitualmente, viene mal visto. È al limite bonariamente percepito come “furbo”, come chi sa vivere e che non s’ammazza di fatica perché, in nome del suo modo di essere contemplativo, riesce a far meno di quella dannazione degli ambiziosi che va sotto il nome di “efficienza”. Di fondo, chi parla con l’ozioso, lo invidia per la sua capacità di fare a meno di sgomitare alla mensa scolastica della vita e non vede l’ora di mortificarlo. Questa malcelata ostilità ingenera di regola nell’ozioso un atteggiamento di sovrumana indifferenza, ma qualche volta riesce a scalfirne l’armatura. Ma non è solo dagli invidiosi che l’ozioso deve guardarsi, perché è in agguato anche la sua nemesi: la Trottola Impazzita. Mentre l’ozioso è un tipo umano con poche sfumature, solitamente ben chiare, la trottola impazzita è impazzita per i motivi più diversi. “Dai, andiamo in centro a prenderci un caffé!” dice la Trottola e l’ozioso pensa fra sé che non ha nessuna voglia di arrivare in centro per stare a sentire le sue sventagliate di parole, propone qualcosa di più vicino, se non altro nella speranza che la Trottola desista: illuso! La Trottola arriva dovunque. La Trottola è appena tornata dall’Azerbaigian: quante foto ha fatto, quante cose ha conosciuto, quanta gente ha incontrato. È tutto uno zampillare di nomi e purtroppo ha in tasca il sostituto virulento delle diapositive, lo smartphone, dove sono conservate tutte le maledette foto che ha fatto. All’ozioso non resta che dissociarsi psichicamente, annuendo, guardandosi intorno con la coda dell’occhio e chiedendosi che bisogno ci fosse di andare in Azerbaigian (di solito “a cercare me stesso”). Tuttavia chi ozia è in grado di sopravvivere sia all’invidioso sia alla trottola, ma non alla propria insicurezza. L’ozioso in garanzia, ancora pieno di remore morali sulla sua condotta lassista, rischia di sentirsi in dovere di giustificare la propria indifferenza verso la carriera, i saldi, il destino della politica, il last minute, la settimana bianca e così via. Citerà Le virtù dell’ozio di Armando Torno, Il diritto alla pigrizia di Paul Laforgue o l’Elogio dell’ozio (di Russell o di Stevenson poco importa), ma fallirà miseramente: argomentare l’ozio è il fallimento dell’ozioso. E poi, se anche l’interlocutore trottante ha fatto le scuole medie, la citazione libresca potrebbe diventare una trappola: Oblomov si staglia all’orizzonte. La mossa migliore è citare un altro libro o, meglio, un certo personaggio narrativo che meglio di tutti illustra i benefici dell’ozio: Hannibal Lecter. Nella intera trilogia (non calcoliamo il rabbercio intitolato Le origini del male) dedicata allo psichiatra cannibale si può apprezzare la grande capacità che ha Lecter d’intrattenere se stesso con il suo “palazzo della memoria”. Nei lunghi anni che trascorre in cella, passa il tempo leggendo Le grand dictionnaire de cuisine di Alexandre Dumas, naturalmente in francese, o disegnando vedute di Firenze, naturalmente senza che gli vengano forniti oggetti affilati o appuntiti, o ripassando nella memoria opere d’arte, madrigali o pezzi di Scarlatti. Anche quand’era libero, a eccezione della propria professione, esercitata quel tanto che bastava per consentirgli una vita agiata, si dedicava esclusivamente alla cucina d’alto profilo, alla musica da camera (finendo col mangiare un flautista della filarmonica di Baltimora perché steccava) e all’arte classica. Hannibal, grazie agli ampi scorci forniti del “palazzo della memoria” del dottor Lecter, è più un affresco del buon vivere ozioso che un thriller. Il buon conversatore ozioso, dopo aver taciuto durante le noiose tiritere dei suoi nemici, non dovrà prodursi in panegirici di stantia verbosità sui classici dell’ozio, bensì lanciarsi nell’agiografia di Hannibal Lecter come autentico esempio di ozio nobile, concludendo sibillinamente che “in ogni ozioso, alla fin fine, sonnecchia un cannibale”.